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Edwy Plenel (Mediapart): il digitale richiede giornalismo di qualità

Edwy Plenel, ex direttore de Le Monde, Fondatore e Direttore di Mediapart  è l’uomo al centro di una delle esperienze giornalistiche più interessanti degli ultimi anni in Europa, Mediapart, appunto. Lo incontriamo per una lunga intervista in cui si parla di Francia, di web, di giornalismo, ma anche di Italia. Un Paese che, per Plenel, ha ancora dei luoghi di “libertà mediatica”.

Un suo bilancio a tre anni dal lancio di Mediapart?
Mediapart si è affermata come una realtà indipendente all’interno del panorama della stampa francese che vive una crisi democratica, non avendo nessuna dipendenza economica o politica. Abbiamo saputo affermare la nostra originalità mostrando come su internet si possa fare un giornalismo di qualità, che si basa su fonti certe, delle inchieste lunge, un giornalismo d’investigazione che abbia la possibilità d’inserisi nell’agenda setting e far smuovere il potere.
Avere degli archivi, andare contro la vulgata che rilega internet ad un luogo dell’immediatezza e della superficialità. Ciò ci ha portato all’estate 2010 in cui Mediapart ha fatto l’agenda della nazione con l’inchiesta sull'affaire Bettencourt, facendo discutere il paese per mesi. Ma per noi questa non era che la continuazione di altre inchieste, come l’affaire Karachi, o di altre inchieste economiche o politiche.
Ad oggi, dopo 3 anni, Mediapart è giunto al pareggio grazie a 46 mila abbonati paganti, e va verso un bilancio in attivo per l’anno prossimo. Con il nostro milione e mezzo di lettori, abbiamo dimostrato, in questo laboratorio che è Mediapart, che è possibile fare del giornalismo economicamente sostenibile, grazie all’atto di adesione dei lettori. Non utilizzo la parola pagamento ma adesione e valore, rispetto al pubblico. Mediapart è quest’idea che attraverso internet bisogna difendere la missione classica del giornalismo che è quella di difendere l’indipendenza e il pubblico. Dopo tre anni possiamo affermare che siamo giunti all’equilibrio economico e possiamo pensare di arrivare, tra un anno, a sessanta-sessantacinque mila abbonamenti. Mediapart dimostra che ci può essere un futuro per il giornalismo malgrado la crisi del giornalismo

Ci sono degli errori che non ripetereste?
Siamo partiti da convinzioni forti ma abbiamo dovuto sperimentare tutto a “tastoni”, quello che posso dire che le nostre convinzioni iniziali sono state confermate. Il nostro punto debole è stata la scarsa conoscenza dei punti tecnologici e di quelli commerciali. Avevamo un’idea editoriale precisa: un giornale fatto dai giornalisti che si rimettono nei loro luoghi, accanto l’agorà il luogo del dibattito pubblico ( i nostri “blog”, la piattaforma di tutti i lettori, un luogo in cui i lettori si confrontano e integrano l’informazione) e accanto a tutto ciò una sintesi di tutto quello che c’è sul web, una rassegna stampa, se così possiamo chiamarla, fatta da noi.
I nostri lettori vengono perché sanno che le informazioni sono ben organizzate e trovo il plus valore dei nostri giornalisti e della nostra agorà. Abbiamo sottovalutato l’aspetto tecnico, perché non siamo solo un blog più grande ma un giornale che quindi ha bisogno di tools, di luoghi in cui si spiega la nostra politica editoriale, etc… Noi oggi abbiamo: il giornale, la piattaforma blog, un social network (che consente una vita “segreta” ai nostri abbonati della quale non siamo a conoscenza) e poi c’è la particolarità di essere un sito “commerciale” e abbiamo dovuto maneggiare tutti gli effetti di queste cose, e francamente tutte queste cose le avevamo sottostimate. Abbiamo scoperto che la tecnologia richiede tempo e che non nasce dal nulla. Direi che richiede molto tempo. Il secondo “errore” è legato alla base commerciale: come si attira e fidelizza il lettore-cliente? All’inizio ci siamo basati sul passaparola, partendo dai problemi derivanti dalla Presidenza Sarkozy ma dopo abbiamo dovuto mettere in piedi un servizio per i clienti: rescissione degli abbonamenti, come evitarlo, lettere commerciali che non passassero per essere dello spam, il “marketing”, le relazioni clienti che non possono essere “virtuali” e per questo abbiamo messo a disposizione una servizio telefonico. Di contro le nostre convinzioni editoriali hanno funzionato, lì non ci sono stati errori. Questa “equazione” tra l’essenziale dell’attualità (gratuita), l’essenziale del web, i “nodi” dell’attualità attraverso le nostre tre edizioni quotidiane, più il “club” ovvero la nostra agorà che fa risalire degli articoli dei nostri lettori ha consentito che non ci sia stato un giorno, domeniche e ferragosto compresi che il nostro numero di abbonati non sia cresciuto. Quest’equazione è vincente. Le posso dire che è vincente in un sistema francese in cui la stampa è controllata, in cui c’è una Presidenza legata ai grandi media, in cui non esistono neanche RaiTre, La Repubblica o Il Manifesto, un panorama in cui la Francia guarda all’Italia e viceversa, però dico che non è solo un problema francese ma per certi aspetti è esportabile, almeno in parte. Sono convinto che ciò che abbiamo ottenuto è aver creato una gratuità democratica, dello scambio, della condivisione (tutto i lettori possono “offrire” un articolo ai loro amici), ma la gratuità tout court distrugge il valore del lavoro e della democrazia. Una idea che si basa sul fatto che si possa fare del giornalismo al 100% gratuito, basato solo sulla pubblicità: io non ci credo.

Pensa che, in Europa, ci sia ancora dello spazio per il giornalismo di qualità?


Certamente! E c’è spazio perché è il cuore della democrazia. Nei tempi incerti, inquieti e problemaitici che noi viviamo la sola soluzione è quella di estendere la democrazia. Più ci sarà democrazia più le persone potranno agire su quello che succede. Fare un giornalismo di qualitì significa dare alle persone quest’opportunità. A condizione che i giornalisti si battano per questo, perché hanno una missione democratica e devono battersi per questo.

Per fare dell’informazione sul web un giornale on line deve avere un DNA digitale….
Certamente. Ricordo un libro che tre anni fa parlava del “La grande conversione digitale” e definiva il digitale come un nuovo rito. Quello che ho scoperto è che attraverso internet possiamo fare meglio il nostro lavoro, gli articoli hanno della profondità, possiamo spiegare i problemi deontologici, inserire della documentazione e quindi creare “relazione” con il pubblico. Oggi manca questo nei media tradizionali. Penso che non sia una scelta, penso che il digitale sarà al centro del nostro mestiere. E poi sopprimiamo tre costi “pesanti”: la carta (anche da un punto di vista ecologico), la stampa (che resta un industria pesante) e la distrubuzione (che è sempre difficile da controllare, con gli invenduti, etc…). Un’invenzione che sopprime questi tre costi (che sono i tre costi principali quando comprate un giornale) ha per forza un futuro davanti a sé.

Cosa ne pensa del citizen journalism? E’ morto?
Non amo l’espressione citizen journalism, credo che ci sia un mestiere, quello del giornalista, il cui ruolo è quello di portare delle informazioni. Un mestiere che richiede delle competenze: verificare le fonti, cercare, fare inchieste. Questo non vuol dire che un cittadino non possa avere informazioni, ma cercare informazioni che sono lontani dalle vostre preoccupazioni e convinzione è un mestiere specifico che richiede tempo. Questo è il mestiere dei giornalisti non l’opinione, l’opinione appartiene a tutti. Quando OhMyNews lancia il sito web che ha come baseline “every citizen is a reporter” vuol dire che il dibattito, l’esperienza viene dai cittadini, l’amatore porta qualcosa e questo è giusto perché rimette nel proprio ruolo i giornalisti. I giornalisti pretendevano d’essere dei leader d’opinione, con il giornalismo partecipativo questo finisce: la mia opinione non ha bisogno del giornalista per essere espressa, posso esprimerla da solo. Si aumenta, così, la potenzialità democratica del dibattito che si nutre anche dell’esperienza di tutti, ma, allo stesso tempo, si chiede ai giornalisti di portare la notizia che non torverei altrove, di essere nel cuore del segreto, di quello che non si dice. Per questo non voglio utilizzare la formula citizen reporter. Ci sono dei cittadini che sono portatori di opinioni e, a volte, di fatti, e dei giornalisti che sono nel cuore della democrazia che sono portatori delle “verità fattuali” che il potere tende a nascondere. Essi hanno tre competenze: l’inchiesta (ho trovato, io provo, io apporto), il reportage (sono andato a vedere e testimonio) e l’analisi. Se vogliamo utilizzare l’espressione giornalismo cittadino è su questo piano in cui i giornalisti e i cittadini si incrociano.

Che innovazioni prevedete?
Abbiamo iniziato a fare dei Web-doc e delle web inchieste. Abbiamo iniziato a fare delle partnership per pubblicare inchieste che gli altri non pubblicano. Abbiamo iniziato a fare dei dossier. Noi siamo i più “creativi” in questo, ci siamo piuttosto concentrati sull’ecosistema che le descrivevo prima. Per noi è importante il contenuto non il mezzo, anche se la multimedialità è il futuro ma non deve diventare un gadget. Noi preferiamo concentrarci sul contenuto.

Credete che sia spazio in Italia per un’esperienza come Mediapart?
Assolutamente sì, il berlusconismo incarna una crisi democratica e credo che ci sia bisogno di un’idea editoriale che si basi sul giornalismo d’inchiesta e di un giornale partecipativo che faccia questo. In Francia abbiamo beneficiato del fatto di essere soli, mentre i nostri colleghi erano compiacenti al potere noi abbiamo detto no! Non si può fare questo. Per rispondere, infine, alla vostra domanda vi dico che è possibile ma bisogna valutare in base al contesto mediatico.

 

Articolo uscito originariamente su Costruendo L'Indro

Commenti all'articolo

  • Di Emiliano Di Marco (---.---.---.181) 21 dicembre 2010 18:56
    Emiliano Di Marco

    Bella intervista, piena di spunti molto interessanti. Da non giornalista (ma da cittadino militante) condivido molto l’accento che viene posto sulla qualità dell’informazione che il web ingiunge alla stampa embedded, seppure la richiesta è ancora per contenuti, servizi ed inchieste free cost.

    Se osserviamo il panorama della stampa "indipendente" italiana, Plenel credo però sottostimi la crisi del Manifesto, che a mio parere si situa, piuttosto che nella difficile collocazione editoriale nello spazio della crisi della sinistra, nel fatto che, essendo un quotidiano di opinioni, non sta reggendo il confronto con le infinite potenzialità del web 2.0, nel quale proprio le opinioni oggi possono essere postate e condivise attraverso strumenti a potenziale diffusione di massa, liberi dagli imbarazzi editoriali e dalle ristrettezze dello spazio d’impaginazione.


    Di contraltare, il successo telematico e cartaceo, del Fatto Quotidiano ha aperto una breccia interessante e rappresenta invece proprio, a mio parere, una domanda che incroci l’evoluzione della comunicazione digitale, con la rigorosa pubblicazione di inchieste e servizi basati sui "fatti".

    Naturalmente ogni giudizio va collocato nella sua contingenzxa storica, ma forse se c’è una differenza in questa transizione tecno-comunicativa, è probabile che stia proprio nella più forte spinta alla ridefinizione dei ruoli degli operatori dell’informazione, ai quali si chiede sempre di più di avere un’anima.

    Basti vedere ad esempio, l’impressionante turn-over che interessa coloro che approtano contenuti su un progetto come Wikipedia, molti dei quali abbandonano esausti delle estenuanti discussioni su Neutral Point of View dei contributi, anche quando le fonti sono gerarchicamente definite e ci si sta muovendo nelle linee guida del progetto.

    Ripensare i ruoli diventa sempre più urgente, pensiamo solo a cosa succederà ai cronisti giudiziari quando i tribunali (prima o poi) saranno completamente digitalizzati e e gli atti dei processi potranno essere scaricati con un clic... smiley

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