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Due scene e un racconto sui quattro rapiti a Duma

I quattro di Duma

(di Assaf al Assaf, per Dahnon. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio).

Appena entrata con Wael a casa di Samira e Yassin, dopo un saluto rapido ma caloroso, Razan ha tirato fuori una serie di libri dalla sua valigia e ne ha messa una copia davanti a ciascuno di noi. Con un tono gentile e determinato: “Date 200 lire ciascuno” (che allora erano l’equivalente di 5 dollari).

Era chiaro che non avevamo scelta: abbiamo pagato quanto ci spettava e prima che chiedessimo qualcosa Razan ha chiarito che il ricavato di questi libri − donati da uno scrittore siriano − sarebbe andato a una associazione che si occupa delle famiglie dei detenuti e dei loro cari. Questa era una cosa nuova per noi, che pure conoscevamo Razan e la sua attività in campo umanitario e legale. Perché la difesa dei diritti dei detenuti politici e dei prigionieri di coscienza è un conto, il prendersi cura delle loro famiglie è un altro. Sembra che questo andasse sempre di pari passo col suo lavoro per i diritti.

C’è bisogno di spiegare la difficoltà di questo lavoro e il rischio che comportava in quei giorni? Essere coinvolti pienamente con i detenuti politici e di opinione nella Siria di Bashar al Asad significa essere nella “bocca del cannone” – come si dice in Siria – nell’affrontare il sistema di oppressione e di tirannia.

Quel giorno Razan parlò del membro della sicurezza che l’aveva seguita come fosse la sua ombra durante la settimana, restando in tribunale nell’orario lavorativo, e camminando dietro di lei all’uscita per tornare a casa. La presi in giro allora dicendole: “Questo membro della sicurezza è il tuo angelo custode come nel famoso film La vita degli altri”.

In un frammento del video diffuso su Youtube, Zahran Allush appare in una conferenza stampa nella Ghuta mentre parla dei rapiti di Duma (Samira, Razan, Wael e Nazem) e dice di aver formato una commissione per seguire il caso e indagare sulle circostanze. Si mostra infastidito dal concentrarsi proprio sul loro caso, perché dice che bisogna parlare degli arresti tra le “donne musulmane” e non dimenticarle. Uno dei presenti gli risponde: “Mi concentro e faccio domande proprio su di loro perché se mi arrestassero o mi rapissero vorrei che qualcuno chiedesse di me e seguisse il mio caso”.

Quando ho visto questo video con un sospiro e un senso di imbarazzo e abbandono ho commentato: “Vergogna!” perché credevo e speravo che questo caso in particolare avrebbe avuto un posto e un interesse speciali per coloro che si dicono rivoluzionari. Un interesse speciale non perché i rapiti sono ben conosciuti, o perché le organizzazioni internazionali per i diritti sanno chi sono e li reclamano, e neppure per il loro lavoro e servizio in favore della rivoluzione. Ma per quello che hanno fatto prima della rivoluzione, la loro attività umanitaria, il loro occuparsi dei detenuti e delle loro famiglie.

Era un periodo in cui la maggior parte dei siriani aveva paura anche solo di avvicinarsi e avere a che fare con un detenuto o con un ex-detenuto per evitare problemi e “mal di testa”. Malgrado quanto avevano insegnato le pratiche del regime sulla faccenda in questione, c’era chi votava la propria vita e se stesso a quei detenuti e alle loro famiglie senza fare distinzioni tra un detenuto e l’altro (in quel periodo la maggior parte dei detenuti erano gli estremisti islamici, tra l’altro).

Speravo – prima che alcuni fatti mi si chiarissero – che il Jaysh al Islam avrebbe messo sottosopra la terra della Ghuta alla ricerca di Samira, Razan, Wael e Nazem, per lealtà e gratitudine. Ero convinto che fosse un’occasione per rappresentare quella storia che raccontavamo da piccoli, che narra di un cavaliere che nel deserto fa montare sul suo cavallo un bisognoso e quest’ultimo poi glielo ruba. Ma prima che si allontani, il nostro cavaliere gli grida: “Non dire a nessuno che hai avuto un cavallo in questo modo, perché la gente non perda i valori”.

Sono ancora dell’avviso che questa sia anzitutto una faccenda morale prima che legale, politica o di qualunque altra natura. E che sia un’occasione per riconsiderare la moralità e renderla parte della questione comune, la nostra questione siriana. Ora più che mai abbiamo bisogno che essa possieda un sistema e un controllo morali nuovi e genuini che mitighino la nostra piaga e le sue ripercussioni e sollevino l’argomento morale nella politica. Non è questa una domanda intricata che ha reso insonni i siriani nella loro sofferenza continua? Hanno pagato a caro prezzo l’assenza di una risposta.

Rilasciate Samira, Razan, Wael e Nazem, prima che la gente perda i valori.

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