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Damasco. Assedio di Daraya: dieci cose da sapere

(The Syria Campaign. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).

Daraya, sobborgo di Damasco, si erge per i diritti degli oppressi da oltre un decennio. Da più di tre anni si trova sotto l’assedio imposto dal regime di Asad che sta prendendo gli abitanti per fame, e rimane fuori dalla portata delle Nazioni Unite il cui staff internazionale siede a pochi chilometri di macchina da qui, in un hotel di lusso a 7 stelle. Per oltre 1000 giorni, Daraya è stata dimenticata dal mondo. Ecco dieci cose di Daraya che tutti dovrebbero sapere.

1) I suoi famosi vitigni. La maggior parte degli abitanti di Daraya lavora nel settore agricolo e molti di loro coltivano della deliziosa uva che per i siriani è da tempo diventata tutt’uno col nome della città. Chi si trova ancora a Daraya deve sopravvivere col poco cibo che riesce a far crescere localmente, dato che sin dal 2012 nella zona non è stato permesso l’accesso né a cibo né ad alcun aiuto internazionale. Fino a qualche tempo fa c’era una strada che portava a un quartiere circostante, ma è stata chiusa nel febbraio 2016.

2) I suoi abitanti si ergono per gli oppressi da anni. Nel 2002, Daraya ha irrotto sulla scena siriana con le proteste in solidarietà verso i palestinesi attaccati dagli israeliani oltre il confine nel campo di Jenin. Poi l’invasione dell’Iraq nel 2003 ha visto crescere l’attivismo civile con proteste organizzate e pacifiche contro la guerra a guida USA. Sono fiorite allora anche campagne locali per fronteggiare la corruzione e avere quartieri più puliti e questo sotto lo stato di Asad che per decenni ha contrastato ogni sforzo nella direzione di una genuina società civile.

In breve, la coscienza politica di Daraya stava fermentando molto prima dell’inizio delle rivolte nel marzo 2011. Come dice una donna del posto di nome Hanan: “Ci interessavano gli sviluppi politici già da prima della rivoluzione. A casa, io, i miei fratelli e mio padre intavolavamo lunghe discussioni sulla situazione in Siria, ma questi scambi finivano appena mettevamo il naso fuori casa. Tutto era proibito e soggetto al pugno di ferro dell’intelligence”.

3) Le campane della chiesa rintoccano in solidarietà con la rivoluzione. Quando nel marzo 2011 è iniziato il sollevamento pacifico e democratico contro quattro decenni di dittatura della famiglia Asad, gli abitanti di Daraya vi hanno preso sempre parte.

Come scrive Hind Kawabat, una dei negoziatori nei colloqui di pace di Ginevra: “Le campane della chiesa hanno rintoccato a Daraya in solidarietà coi manifestanti. Dai loro balconi nelle strette strade, i siriani cristiani hanno riversato sui manifestanti una pioggia di riso e fiori. Hanno marciato mano nella mano”.

4) Il piccolo Gandhi, fiori contro i proiettili. Ghiyath Matar, una delle molte icone della pacifica rivolta siriana, viveva e lavorava a Daraya. Il giovane che stava per diventare padre porgeva fiori e acqua ai soldati mandati dal regime di Asad a sparare sui manifestanti pacifici. Il suo strenuo impegno rispetto alla non-violenza gli è valso il soprannome di “piccolo Gandhi”, ma è stato per questo anche preso di mira dai servizi di sicurezza del regime.

Un mese prima che Ghiyath compisse 25 anni, il fratello di un amico è stato obbligato dai servizi di sicurezza a telefonargli per chiedergli di aiutarlo. Ghiyath ha intuito che fosse una trappola, ma ci è andato lo stesso. Quattro giorni dopo il suo corpo è stato restituito alla famiglia con buchi di proiettile e segni che si sospetta fossero di tortura.

Forse perché temeva il peggio, Ghiyath ha dato un messaggio ai suoi amici prima di morire: “Ricordatemi quando festeggerete la caduta del regime (…) e ricordate che ho dato l’anima e il sangue per quel momento (…). Che Dio vi guidi lungo la via della lotta pacifica e vi renda vincitori”.

5) Ha inizio l’assedio medievale. Nel novembre 2011 il regime di Asad ha deciso di chiudere l’area sperando di prendere per fame la gente di Daraya e della vicina Muaddamiya perché si sottomettessero. Le due città erano collegate da una sottile striscia di terra. Nel febbraio 2016 sono state separate e ora Daraya si trova completamente isolata e sotto attacco quotidiano, nonostante il parziale cessate-il-fuoco che dovrebbe essere in atto.

6) Testimoni di un massacro, propaganda confessionale. Dopo un anno di rivolta, e dopo innumerevoli arresti e sparizioni di attivisti come Ghiyath, il regime di Asad ha commesso un massacro a Daraya. Come riportato allora dall’Economist, dopo giorni di bombardamenti, le forze del regime hanno chiuso la città e sono andati di porta in porta compiendo esecuzioni di uomini sul posto. In una settimana ci sono stati 350 uccisi, con 200 corpi rinvenuti in un solo giorno. Ci sono state notizie di donne e bambini mitragliati e di decapitazioni.

Il regime ha fatto di tutto per dipingere la violenza come un conflitto confessionale tra gli abitanti, sperando di infondere paura alla comunità cristiana. In realtà, è stata l’unione tra i diversi gruppi a salvare vite. Nelle parole di Hind Kabawat:

“Mentre i soldati del regime andavano di porta in porta cercando la gente per ucciderla, è stata la comunità cristiana di Daraya che ha aperto le proprie porte per proteggere coloro che scappavano dalle atrocità commesse. Una chiesa cattolica ha curato i feriti e ha preparato loro del cibo”.

8) Barili-bomba piovono dal cielo. Daraya è una delle aree più colpite dalla tattica del regime di sganciare barili-bomba su zone abitate da civili. Queste armi improvvisate – spesso vecchi serbatoi riempiti di scarti metallici e altamente esplosivi – sono sganciati da alcuni chilometri nel cielo e precipitano su scuole, ospedali e case, non di rado distruggendo interi complessi in un colpo solo. Secondo la Rete siriana per i diritti umani, Daraya è stata attaccata da 330 barili-bomba nell’arco di due mesi.

9) Quella speranza nata dall’inferno. Da allora, Daraya ha creato un comitato locale che si occupa dell’area: è una delle poche comunità in cui l’amministrazione civile controlla le fazioni militari e non il contrario. Come ha detto a suo tempo uno degli organizzatori: “Non possiamo solo dire ‘Vogliamo rovesciare il regime’. Dobbiamo rendere chiaro quale sia l’alternativa. D’ora in poi, invece di graffiti che insultano il regime, i nostri nuovi slogan saranno lezioni. Scriveremo i principi della nostra rivoluzione – uguaglianza, legge, non-confessionalismo. Offriremo una migliore visione del futuro”.

Anche Razan Zaitune, tra le icone della lotta pacifica della Siria per i diritti umani e la democrazia (sparita nel dicembre 2013) ha detto della città: “Daraya era una stella prima della rivoluzione e tale è rimasta anche durante. Ciò che hanno costruito giovani uomini e donne della città ha richiesto immensi sforzi e ha dato vita a un piccolo modello esemplare per il futuro della Siria, quello che noi sogniamo. L’attivismo nella città non ha smesso di sorprenderci neanche un minuto. È a Daraya che i manifestanti pacifici hanno portato per la prima volta rose e acqua ai soldati dell’esercito siriano che continuavano a ucciderli. A Daraya, si è continuato a tenere alti i cartelli che chiedevano la convivenza anche quando l’intero paese stava cadendo nella disperazione a ogni nuovo massacro”.

10) Il vergognoso silenzio del mondo. Secondo le Nazioni Unite, alcune persone a Daraya sono state ridotte a mangiare l’erba per sopravvivere. Eppure, nonostante la fame e la violenza, la gente di Daraya continua a scendere per le strade, chiedendo che l’assedio finisca.

Possiamo aiutare a porre fine all’assedio di Daraya. Al momento i paesi più potenti del mondo hanno formato la Humanitarian Task Force per far arrivare gli aiuti in aree come Daraya. Malgrado si svolgano incontri da oltre un mese, ancora non sono riusciti a far entrare i convogli. Stanno aspettando un permesso burocratico da parte del regime di Asad, qualcosa di cui risoluzioni ONU successive dicono non aver bisogno.

Qui si può inviare una e-mail ai negoziatori della task force chiedendo che l’assedio venga interrotto subito. Uniamoci per stare dalla parte della coraggiosa gente di Daraya.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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