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Da Falcone un’eredità preziosa per la lotta alla mafia

Il 23 maggio del 1992 è un giorno terribile per l’Italia. Quel giorno Cosa nostra lancia una sfida frontale allo Stato, uccidendo l’uomo simbolo della lotta alla mafia, il giudice Giovanni Falcone, con un attentato eclatante in cui perdono la vita anche la moglie Francesca Morvillo e gli uomini della scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro.

Dopo più di un decennio, caratterizzato da una serie impressionante di omicidi all’interno dell’organizzazione, nell’ambito della guerra di mafia tra l’ala dei palermitani e quella dei corleonesi, e dall’eliminazione di molti magistrati e uomini delle forze dell’ordine, la mafia decide di alzare il tiro. La strage di Capaci segna l’inizio della stagione stragista.

La Prima Repubblica sta scricchiolando sotto le inchieste dei magistrati di Milano, i referenti politici di sempre della mafia non sono più in grado di dare garanzie, soprattutto rispetto alle inchieste giudiziarie condotte dal pool di magistrati antimafia di Palermo, guidato da Antonino Caponnetto. Nasce in questo clima l’esigenza da parte di Cosa nostra di destabilizzare il Paese con una mirata strategia del terrore volta a screditare le istituzioni, per indurre la politica a trattare e ricostruire un nuovo equilibrio politico volto a continuare ad assicurare impunità e collusioni ai boss.

Giovanni Falcone è il bersaglio ideale, in quanto nemico giurato di Cosa nostra, grande servitore dello Stato nella lotta alla mafia, ma soprattutto uomo isolato e duramente contrastato da parte della magistratura, della politica e della stessa informazione. Nel 1987, quando Caponnetto lascia il pool per limiti di età, il Csm preferisce Antonino Meli a Giovanni Falcone, nonostante la superiore esperienza e l’alta professionalità di quest’ultimo. Nell’’89 viene, addirittura, accusato di essersi organizzato il fallito attentato nella sua villa al mare dell’Addaura per farsi pubblicità. Sempre in quegli anni Falcone subisce feroci critiche da parte di diversi esponenti politici locali. Indimenticabili sono le accuse lanciate al giudice in diretta televisiva nel corso della trasmissione Samarcanda dal neosindaco della città di Palermo Leoluca Orlando, prima, e dall’allora deputato regionale della Democrazia cristiana Totò Cuffaro. Il primo lo taccia di protagonismo e lo accusa di “aver tenuto chiuso nei cassetti” una serie di documenti su omicidi eccellenti di mafia. Il secondo, invece, oggi detenuto a Rebibbia per mafia, gli imputa di voler delegittimare con le sue inchieste la migliore classe dirigente siciliana.

Anche di fronte ai colpi bassi più duri, “lo spirito di servizio”, come è solito dire, lo fa andare avanti con coraggio e determinazione.

Nel ‘91 accetta la chiamata del vicepresidente del Consiglio Claudio Martelli, che da poco ha assunto ad interim il dicastero della Giustizia, a dirigere la sezione Affari penali del ministero. E’ un periodo molto intenso. Falcone si mette a lavoro e in pochi mesi elabora l’attuale modello organizzativo di lotta alla mafia basato sull’istituzione di una procura nazionale antimafia. Una struttura che ha il compito di coordinare le indagini, i rapporti tra le procure e con le forze di polizia al fine di migliorare l’attività investigativa. Falcone, inoltre, intuisce per primo l’importanza fondamentale del ruolo dei pentiti per scoprire l’organizzazione di Cosa nostra e i suoi traffici.

Il 23 maggio del 1992 torna in Sicilia, da Roma dove ormai vive da mesi a causa dell’incarico al ministero, con un aereo di Stato insieme alla moglie. Ad aspettarlo tre Fiat Croma bilndate. Quel giorno Falcone ha voglia di guidare e si mette alla guida della Croma bianca che si trova al centro del gruppo delle auto di scorta, davanti vi sono gli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro con la Croma marrone e in coda gli agenti Paolo Capuzzo, Gaspare Cervello e Angelo Corbo sulla Croma azzurra. Nel frattempo qualcuno avvisa i boss che le auto sono partite. Il commando è appostato su una collina in direzione dello svincolo di Capaci da dove gode di un’ottima visuale sull’autostrada per Palermo. Alle 17 e 58, nel momento esatto in cui le auto passano sopra il cunicolo nel quale erano stati sistemati cinque quintali di tritolo, il boss Giovanni Brusca aziona con un telecomando il detonatore. L’esplosione è terribile e genera una voragine ampia e profonda. I tre agenti davanti muoiono sul colpo. Giovanni Falcone e la moglie vengono trasportati immediatamente in ospedale in condizioni disperate, moriranno poco dopo. Feriti ma salvi, invece, gli agenti che si trovavano dietro.

L’impegno, il coraggio e il valore dimostrato da Falcone nel corso della sua vita, tra mille difficoltà e ostacoli, per combattere la mafia rappresenta un’eredità culturale e valoriale preziosa, che ognuno ha il dovere di tenere viva con la memoria e l’impegno civile quotidiano. Un modello positivo da cui trarre esempio per liberare la Sicilia e il Paese dal cancro della mafia che genera ingiustizie e promuovere la cultura della legalità e dei diritti.

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