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Che Storia serve oggi?

Di Martino Iniziato, Associazione Lapsus.

Nelle settimane scorse si è tenuto sul blog di Aldo Giannuli un interessante scambio di opinioni tra Aldo Giannuli e Danilo De Biasio in merito alla “Storia per anniversari”. Avendo collaborato con Danilo De Biasio per la realizzazione del progetto “Autista Moravo”, ed essendo uno dei collaboratori del Prof. Giannuli, mi sono sentito chiamato in causa dalla discussione a cui vorrei dare un contributo, anche alla luce dell’esperienza e delle riflessioni maturate in questi anni con l’Associazione Lapsus di cui faccio parte. Questo intervento nasce dunque con l’intento di aggiungere degli elementi a quanto sin qui emerso, alla luce di riflessioni di lungo corso, ma anche di quanto sta accadendo nel mondo in questi giorni.

Su moltissimi aspetti, siamo d’accordo. Sul fatto che, per esempio, come argomenta Aldo Giannuli “la storiografia per anniversari tende inevitabilmente a privilegiare la Storia evenemenziale su quella processuale” e che “questo è tanto più dannoso in un momento storico, come quello presente, che ci impone di misurarci con il “tempo lungo”, quello che si muove nell’ordine dei decenni, se non dei secoli.”

O ancora che ci sia un urgente e gravissimo problema di “classi dirigenti a tutti i livelli, dalla politica al management, dall’università alla magistratura, dai vertici della Pa alle professioni” che trova sponda nell’articolo di Danilo De Biasio, quando si sofferma sul fatto che “non dobbiamo abbandonare l’anniversarismo, ma abbiamo bisogno di storici competenti e di mass media che sappiano usarlo con intelligenza.”

Entrambi gli autori tuttavia, nei loro articoli, hanno toccato un punto che credo valga la pena approfondire e da cui muoverò per le mie riflessioni. Se Giannuli infatti polemizza giustamente con le 78 “giornate della memoria” stabilite dall’Onu e le altre 43 nazionali, Danilo De Biasio c’entra il problema in una frase: “Sarà banale, ma dipende da come si usano gli anniversari”. Ecco, appunto. La bulimia di anniversari a cui siamo sottoposti, va nella direzione opposta che l’anniversarismo stesso si vorrebbe porre. Contrariamente a quanto è comunemente diffuso, la memoria non è solo la scelta di cosa ricordare, ma anche la scelta di cosa dimenticare. Oggi assitiamo ad una “incapacità di avere memoria”, intesa come incapacità di scegliere cosa ricordare e cosa lasciare all’oblio.

Le motivazioni sono diverse e, senza ambizione di completezza, le dividerei in “di bassa lega” e più complesse e rilevanti. Certamente, ci sono le dinamiche del mercato editoriale e “concorsuali” descritte da Aldo Giannuli negli articoli precedenti di questo dibattito, così come a tutto questo dovremmo aggiungere la parcellizzazione disciplinare e l’invenzione di improbabili specialismi che hanno finito per sfociare in una sorta di “annalismo all’italiana”, come viene definito ne “L’abuso pubblico della Storia“, per cui “la lezione dei francesi qui si è tradotta in un localismo e particolarismo che ha prodotto senza alcun criterio”.

Altro elemento da sottolineare sono le storture, le torsioni e gli abusi che la Storia subisce ogni giorno per opera di giornalisti, politici e comunicatori di varia natura, che privi di qualsiasi laicità e animatori di un dibattito politico tutto in stile “tifoseria”, sono sempre alla ricerca di un’analogia utile nel corso della Storia da citare a supporto delle proprie tesi. Di questa “ossessione analogica”, per cui ogni cosa è la ripetizione di qualcosa di già accaduto, ha fatto un efficacissimo esempio Danilo De Biasio nel suo articolo, in cui cita un parlamentare 5 stelle, che ha paragonato le trincee militari e quelle dell’opposizione oggi in parlamento, citando, per non farsi mancare nulla, Pietro Calamandrei, che con le trincee non si vede proprio cosa c’entri. Ma anche a sinistra siamo maestri di “analogismo militante”, per cui ogni lotta diventa una “nuova resistenza” o un “nuovo Sessantotto” o un “autunno caldo”, per non parlare della destra, che quanto ad abusi pubblici della storia ha pochi concorrenti.

Alzando un po’ il tiro, proprio ne “L’abuso pubblico della Storia”, un testo del 2009 ma molto attuale anche oggi, sebbene scritto all’inizio della crisi ed alla luce del quale andrebbe aggiornato, si analizzavano con grande lucidità i problemi della storiografia, in particolare italiana, concludendo che “le ragioni vanno ricercate nel mancato appuntamento di questa storiografia con la Storia. [...] La contemporaneistica italiana non ha saputo produrre una sintesi storiografica adeguata alle esigenze di rinnovamento politico del paese. Come abbiamo già detto, essa è segnata, al suo nascere, da una esasperata carica ideologica e dall’accentuato rapporto di osmosi con le centrali partitiche”, venendo meno le quali, aggiungo io, per ritornare al tema dell’anniversarismo, si è prodotta la moltiplicazione incontrollata di anniversari e celebrazioni inutili, frutto un po’ della più bieca spartizione politicista, per cui una giornata della memoria non si nega a nessuno, ma anche dell’incapacità della società contemporanea, di scegliere cosa ricordare.

La crisi delle “centrali partitiche” (che, sottolineo con forza, non è affatto un elemento di rimpianto per quanto riguarda la Storia), ma ancor più in generale, la profonda crisi della politica e l’autunno della democrazia che il mondo occidentale sta attraversando, da molto prima della crisi economico-finanziaria del 2008, è strettamente connessa dunque con la Storia, che a mio giudizio non è il piatto racconto di tutto ciò che è accaduto, ma esige sempre una scelta di quello che è significativo nella totalità degli eventi. E questo implica sempre una decisione che non è mai politicamente neutrale.

Alla luce di quanto detto fin’ora e di quanto scritto nei pezzi precedenti del dibattito, mi appare una volta di più lucida, condivisibile e utile al ragionamento sviluppato in questo articolo, l’analisi proposta da Aldo Giannuli ed anche da altri autori, nel 2009 e che oggi si inserisce in un contesto ancor più complesso e peggiorato di instabilità internazionale.

“…Siamo di fronte a un nuovo ritorno del Principe. Ritorno, non novità assoluta, certamente. La Storia così come venne formandosi nel XVIII secolo, a opera di uomini come Gabriel Mably, Ludovico Antonio Muratori, fu parte integrante del processo di secolarizzazione del potere politico. Ma accanto a questa Storia, continuò ad esserci quella del Principe, finalizzata a legittimare il potere politico e le mire espansionistiche verso l’esterno. La storiografia indipendente dovette guadagnarsi la sua libertà e la ottenne partecipando al processo rivoluzionario che fondava la moderna democrazia” (”L’abuso pubblico della Storia, pp. 338).

La crisi in cui siamo impantanati da ormai 6 anni e la battaglia politica e militare sul nuovo ordine mondiale che ormai evidentemente è in corso a livello globale e, ancor di più, sulla natura del sistema politico, mette in gioco il modello di democrazia che si affermerà nei prossimi decenni e riguarda profondamente, credo, anche gli storici occidentali, che non mi sembrano tuttavia per nulla pronti.

Che storia serve oggi?

È questa la domanda che, confesso, continuo a pormi da settimane, anche mentre lavoravamo con l’Associazione Lapsus al progetto “Autista moravo”. La scelta di strutturare un progetto ed una trasmissione sulla Grande Guerra, lo scrivo senza presunzione, non è stata affatto motivata da volontà celebrative, localiste, o di mera “visibilità”: anzi, il taglio che abbiamo cercato di dare è stato per grandi temi, rifiutando il più possibile l’analogia “oggi come allora” ed andando in cerca invece di ciò che dopo la Grande Guerra “non è stato più come prima”, come testimoniano anche i titoli di molti dei video prodotti. Una delle interviste più efficaci, in questo senso, è stata quella a Nicola Offenstadt, storico dell’Università di Parigi, che, senza volerlo, ha centrato in pieno lo spirito che ci animava, affermando che questo anniversario sarebbe stato sprecato se fosse rimasto chiuso nelle accademie o tutto eurocentrico e che per essere in qualche modo utile avrebbe dovuto essere la prima occasione per un dibattito veramente diffuso, popolare, sul primo grande conflitto del ‘900 che ha coinvolto tutto il mondo nel primo grande conflitto di massa, benché si sia combattuto sul suolo europeo.

La realtà, tuttavia, è andata oltre le più tetre previsioni, e le avvisaglie di tempesta perfetta che sempre più addensano in questi giorni guardando al contesto internazionale, e all’ampio arco di instabilità che va dall’Ucraina all’Iraq, mi convincono sempre di più che è urgente “affinare un metodo di lavoro avalutativo che ricorra alla comparazione più che all’analogia, che abbia carattere multilineare, che si misuri sul terreno della complessità, che abbandoni l’esasperato specialismo per costruire nuove ampie sintesi storiografiche transdisciplinari”, come ebbe a scrivere sempre Aldo Giannuli, polemizzando con David Bidussa, nel luglio del 2011 sul Corriere della Sera.

Domande

Lo scopo che mi sono prefisso nello scrivere questo articolo non era di dare risposte: non ho ne le competenze ne i galloni, ma di porre problemi e concludere quindi sottoponendo dei quesiti, ad Aldo Giannuli, a Danilo De Biasio, od anche ai miei colleghi di Lapsus se vorranno cimentarsi nell’impresa o ad altri storici con cui collaboriamo.

Nel corso del mio articolo ho cercato di inserire il discorso sull’anniversarismo in un più ampio scenario legato alla crisi ed alla crisi della Storia e della Politica, per come l’abbiamo intesa per lo meno nell’ultimo secolo.

Come detto inoltre, penso sia efficace quanto scritto da Aldo in merito al “ritorno del Principe” ed alla crisi della storiografia repubblicana, ma sono anche convinto che lo scenario sia oggi ancora più complesso e preoccupante.

Lo scorso 11 agosto “Il Foglio” ha ospitato la trascrizione di un interessante intervento di Michael Ignatieff, tenuto alla Ditchley Foundation il 12 luglio scorso e intitolato “La democrazia liberale e il suo nuovo nemico: il capitalismo autoritario”. Nell’articolo, che si sofferma a lungo sul possibile scenario di sinergia tra Russia e Cina e merita una lettura approfondita per diversi motivi, Ignatieff, da un punto di vista che potremmo definire senza dubbio “del Principe”, sostiene che

“i confronti ideologici impliciti nella Guerra fredda sono svaniti, e non faranno mai ritorno. Dalla Rivoluzione russa in avanti, milioni di persone che davvero credevano nel comunismo hanno combattuto, e in qualche caso hanno perso la vita, confidando che esistesse un’alternativa socialista al metodo di produzione capitalista. [...] Entro il 1989, quando collassò l’impero sovietico, le speranze investite nel “metodo di produzione socialista” e il domani radioso morirono entrambi con esso. Mentre ci sono molti tipi di società capitalista, non esiste alcuna alternativa fattibile al capitalismo come metodo economico di produzione. Nel 1989, la questione venne quindi risolta. Questo era ciò che voleva intendere Francis Fukuyama quando ci disse che la storia aveva avuto termine nel 1989. La storia, ovviamente, non ha mai fine, ma egli aveva ragione nel credere che il confronto che aveva plasmato la storia, fra capitalismo e comunismo, avesse avuto termine.”

L’autore, sottolineata la sua concezione di “fine della Storia”, analizza poi come Russia e Cina siano modelli di “capitalismo autoritario”, asserendo come questo sia ora il principale avversario della democrazia liberale, e che “se il capitalismo autoritario è la sfida emergente all’ordine liberale del XXI secolo, la risposta necessaria è la riforma della democrazia liberale in patria”.

La Storia, come ormai è chiaro a molti, non è affatto finita e l’impressione, nonostante le dichiarazioni riportate sopra, è che le “democrazie liberali” non siano affatto in grado di riformarsi in senso democratico-repubblicano, per lo meno a breve, ma che anzi stiano subendo esse stesse ulteriori torsioni e regressioni, frutto del fenomeno di regressione culturale e politico che è stato il ventennio liberista in occidente, alla luce della crisi in corso e della “tempesta perfetta” di questi giorni, per nulla destinata ad esaurirsi in breve, se anche Papa Francesco arriva a dichiarare che si tratta della “terza guerra mondiale” e se è ormai evidente, per esempio, che l’Isis non è una forza “antimperialista”, ma una “forza d’invasione multinazionale che ha un progetto non di “liberazione” ma di conquista”, come hanno scritto nei giorni scorsi i Wu Ming.

L’articolo citato però, oltre a permettermi di arrivare alle domande conclusive, evidenzia con efficacia un aspetto: che la vera particolarità della situazione attuale “sta nell’assenza del contraltare di una storiografia repubblicana a quella del Principe. Il canone progressista era stato, tra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento, il punto di arrivo della storiografia repubblicana che accomunava tanto la Progessive History americana, quanto il canone giacobino-marxista francese, quello gramsciano-azionista italiano ecc… [...] il canone progressista è andato in crisi quando la Modernità ha rivelato contraddizioni ed esiti che esso non era più in grado di spiegare. Il collasso del canone progressista ha privato la storiografia del Principe di ogni contraltare, che non fosse la falsa alternativa del populismo storiografico che ne è solo il riflesso speculare. La funzione reale di questo tipo di storiografia non è quella proclamata di “demolire le false verità” di una storia scritta da “intellettuali venditori di fumo” per “ridare la voce al popolo”, ma quella di una sorta di “antipedagogia”, destinata a rafforzare la subalternità culturale delle classi popolari. Quella populista è la variante della Storia di corte scritta dalla servitù.” (L’abuso pubblico della Storia).

Ed allora, e ringrazio i lettori che saranno riusciti ad arrivare sin qui, una volta di più, che storia serve oggi? Chi è il Principe, quanti sono, come smascherarli? Come rifondare una storiografia repubblicana che recuperi pienamente il nesso fra Libertè ed Egalitè? Gli avvenimenti in corso, potrebbero essere l’occasione per una riflessione ampia e profonda sulla definitiva uscita dalla Modernità, così come l’abbiamo “canonicamente” intesa (e sulle cui problematiche si è soffermato approfonditamente Aldo Giannuli nei suoi confronti con il Prof. Alberto Martinelli), verso nuovi assetti mondiali che scaturiranno da una storia per nulla finita ed iniziata, forse, nel 1989?

Come tenere fede all’invito di Gabriel Bonnot de Mably, che nel 1782 scriveva nel suo “De la manière d’ecrire l’histoire”

“…lo storico deve esercitare una sorta di magistratura; e volerlo ridurre a cucire fatti a fatti e a raccontarli in modo piacevole per divertire la nostra curiosità o piacere alla nostra immaginazione, significa svilirlo e non farne che un insipido gazetiere. [...] Lo storico insegni ad amare il bene pubblico, la patria, la giustizia; smascheri il vizio per far trionfare la virtù” (Gabriel Bonnot de Mably, De la manière d’ecrire l’histoire, Fayard, Paris, 1988).

Martino Iniziato, Lapsus

@MartinoIniziato

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