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 Home page > Tribuna Libera > Bartleby il Resistente: una rilettura per celebrare il 25 aprile

Bartleby il Resistente: una rilettura per celebrare il 25 aprile

Quando penso ai mestieri dello scrivere, alla resistenza e alla liberazione, mi vengono certo in mente i nomi di quelli che per me sono due santi laici, Fenoglio e Calvino, ma anche e soprattutto quello di un personaggio che non è mai vissuto se non tra le pagine di un libro, nella fantasia del suo autore e nella coscienza e sensibilità di generazioni di lettori.

Mi riferisco a "Bartleby lo scrivano" il protagonista dell'omonimo racconto di Herman Melville.

La sua storia - un Bartleby non si racconta da sé - è narrata dal suo datore di lavoro, e benefattore, un brillante avvocato di Wall Street.

Costretto dal successo della sua attività ad ampliare la cerchia dei suoi collaboratori, egli assume l'unico che risponde ad un suo annuncio. Timido, decoroso in tutto e brillante in nulla, il nuovo scrivano dapprima si limita a compere le proprie mansioni rifiutando con un educato, ma fermo, "I would prefer not to", preferirei di no, qualunque compito che esuli da quelli per cui è stato assunto. A un certo punto smette di fare qualunque cosa, anche quelle più strettamente inerenti al proprio lavoro, opponendo, alle richieste del titolare, sempre lo stesso: "Preferirei di no" .

Sarà licenziato, dopo qualche tempo, ma la cosa non pare toccarlo; le sue parole, di fronte a qualunque suggerimento o ordine, sono sempre e solo quelle: "Preferirei di no".

Bartleby, ridotto al vagabondaggio, finisce in carcere e lì si lascia morire d'inedia.

I tentativi dell'avvocato - che si sente responsabile del suo destino - di aiutarlo dando dei soldi al vivandiere perché gli procuri del cibo migliore sono inutili: portando alle estreme conseguenze il suo preferire di no, Bartleby preferisce non mangiare e si ostina in questo rifiuto - anzi, in questa preferenza - fino alla morte.

Si può resistere in mille maniere; nessuna può essere tanto civile quanto il preferire di smettere di funzionare. Bartleby resiste alle pressioni della società, e ai luoghi comuni, senza compiere gesti esaltanti; senza cercare aiuto nella carica d’adrenalina che accompagna l’azione. Si limita, davanti a chi cerca di convincerlo altrimenti, a restare inerte e ad esprimere quella sua preferenza; lo fa rimandendo solo, senza il conforto di alcuno e contro il parere di tutti.



Si può resistere per mille motivi; la preferenza ineluttabile di Bartleby, che viene prima di qualunque ragione o ideologia, non è neppure una scelta, perlomeno io mi rifiuto di interpretarla come tale: è il coraggio morale di chi ha osa seguire, fino in fondo, la propria natura.

“Divieni ciò che sei": questa citazione da un’ode di Pindaro compare con frequenza negli scritti di Nietzsche. Quanto è perfettamente nietzschiano Bartleby, nel suo coraggio d’essere, inerte e pigro, assolutamente sé stesso.

Mi è inevitabile paragonarlo al freddo Eichmann descritto da Hanna Arendt che, efficiente, meccanico, irriflessivamente felice di compiere il proprio dovere e di funzionare, è il suo esatto contrario.

La letteratura ci propone un eroe che è tale perché preferisce non far nulla; la cronaca, ancora prima che la storia, ci presenta mostri che sono tali perché fanno come tutti: sono gli orrendi qualunquisti di sempre; i mattoni con cui vengono costruite le prigioni di tutti i regimi.

Quanto sarebbe stata diversa la storia del secolo scorso se ci fosse stato, tra i tedeschi e gli italiani, qualche Bartleby in più.

Quanto torto si fa ai partigiani quando, ora, se ne sindacano le motivazioni.

Prima d’essere comunisti, azionisti ,cattolici o monarchici, i migliori tra loro erano dei Bartleby; in montagna ci andarono, anche per i pavidi rimasti a casa e per i silenziosi carnefici di ogni conformismo ,semplicemente perché seguendo la propria natura non potevano fare altro: loro preferivano la libertà

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