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Andreotti e la cecità della sinistra

 

Ho preferito per molti giorni non scrivere più nulla sul disgustoso spettacolo del trionfo della componente democristiana nell’assegnazione dei posti di governo. Tra i ministri del PD infatti ce ne sono solo due o tre di origine PCI, ma non è detto neppure che siano migliori di quelli ex DC: basta pensare che uno di loro, Flavio Zanonato, è quell’ex sindaco di Padova che aveva costruito un muro per escludere dal centro gli immigrati…

Disgustoso anche il ritorno al classico “Manuale Cencelli” per dosare le correnti, disgustosa l’ipocrisia della sinistra PD che annunciava sfracelli e si è accontentata di qualche sottosegretario o presidente di commissione. E dopo aver ingozzato un gran numero di impresentabili si è impuntata su uno dei tanti collusi, Nitto Palma.

Logico anche il cordoglio generale per uno dei padri fondatori della corruzione italiana, il “divo Giulio” Andreotti. E non ne scriverei ancora nulla, se non fosse che mi sono accorto che, anche a sinistra, la dissociazione da Andreotti è al massimo sui suoi legami con la mafia, sanciti d’altra parte anche da una sentenza del tribunale che tuttavia, con ipocrisia somma, li datava agli anni della sua ascesa, cioè agli anni per cui si poteva applicare la prescrizione di un reato pur inequivocabilmente accertato.

Andreotti d’altra parte non era un’eccezione, perché molti altri esponenti dello Stato hanno convissuto regolarmente con la mafia e le altre forme di criminalità, fin dal 1860, e se necessario anche commissionando l’eliminazione di chi dava fastidio. La storia italiana di un secolo e mezzo è costellata di delitti eccellenti e di sentenze politiche, a volte scandalosamente assolutorie, altre ricattatorie, ma con pene sempre non scontate.

Ma si sorvola invece su Andreotti esponente di primo piano dell’imperialismo italiano: anzi è stato ricordato spesso positivamente come il padre di una politica estera “indipendente” e “filopalestinese”. Questo giudizio è il frutto di una grande mistificazione. Andreotti non era filopalestinese ma amico di tutti peggiori regimi arabi, e proprio come loro usava la retorica sull’appoggio alla causa palestinese; casomai gli interessavano i buoni affari con regimi grandi produttori di petrolio e generosi acquirenti di prodotti di lusso italiani. Aveva capito presto che la burocrazia dell’OLP da un pezzo non era un pericolo per nessuno, e si accontentava facilmente di buone parole e promesse inconsistenti. Per giunta con qualche gesto simbolico da parte dei servizi italiani, era stato facile ottenere che non ci fosse più nessun attentato palestinese in Italia. Naturalmente i rapporti con Israele erano un’altra cosa, ben più solidi, e lo sono rimasti sempre, anche grazie ai legami stabiliti da un lato da Napolitano, dall’altra da Gianfranco Fini.

Andreotti era convintamente anticomunista e schierato decisamente nella NATO, ma era anche un uomo del Vaticano, da cui non si poteva dire fosse del tutto “indipendente”. Una delle definizioni più efficaci di quest’uomo che ha frequentato da vicino tutti i papi dal 1946 ad oggi, compreso Bergoglio quando era solo un cardinale papabile, è quella di “cardinale esterno”, termine che ricalca l’episcopus externus con cui la Chiesa romana definiva l’imperatore Costantino, neppure battezzato ma prezioso strumento del nascente potere clericale e persecutore degli eretici e di chi non accettava l’imposizione del cristianesimo.

È questo che spiega molte delle intuizioni di Andreotti. Infatti il Vaticano, pur restando una delle più poderose forze reazionarie, aveva iniziato da decenni a differenziarsi dall’ottusità della destra statunitense, appoggiando la Östpolitik tedesca e realizzandone una sua, nella certezza di poter raccogliere i frutti della crisi profonda dell’URSS e dei suoi satelliti, di cui la sua articolatissima diplomazia aveva piena consapevolezza. Nulla di “progressista” dunque in Andreotti, che era un convinto reazionario anche se intelligente e lungimirante.

Era cinico in politica estera come in quella italiana: come ironizzava sulle vittime degli intrecci tra mafia e Vaticano, come Ambrosoli, dicendo che quella fine “se l’era cercata”, così aveva giustificato la strage di Piazza Tien Anmen con una battutaccia: cosa sono poche migliaia di morti in un paese che ha più di un miliardo di abitanti?

Bene ha fatto il M5S a rifiutare di partecipare alla scandalosa celebrazione del morto, nello spirito di una richiesta “santo subito”, facilmente pilotata dai mass media come fecero con grande successo al momento della morte del pessimo papa Wojtyla. Un po’ meno bene fanno i grillini a impegolarsi nei giochi parlamentari, combattendo per ottenere (non certo per l’indennità, che devolveranno) un po’ di posti nelle presidenze delle commissioni parlamentari. Quanto dovranno aspettare per scoprire che i giochi si fanno altrove? Non basta vedere che a segretario della Commissione esteri è stato designato nientemeno che il socio semianalfabeta di Scilipoti, Antonio Razzi? Come si fa a pensare che queste commissioni siano una cosa seria? Il Pd, e prima il PDS e il vecchio (e non glorioso) PCI, nonché gli epigoni del PDUP, del PRC, di SEL, hanno fatto danni infiniti seminando tra i loro iscritti, militanti e simpatizzanti molte illusioni sull’utilizzazione delle istituzioni rappresentative.

Mi dispiace che la forza che ha raccolto parte dello sdegno e della protesta sottraendola all’astensione, e che si era proposta di “mandare tutti i casa”, continui a muoversi prevalentemente nel solco del tradizionale “gioco parlamentare”, senza abbozzare una vera alternativa a un ceto politico squalificato e incapace di ascoltare il paese. PD e PDL litigano sui ministri e sui sottosegretari, o sulle presidenze delle commissioni, e discutono assurdamente se per tagliare l’IMU si devono aumentare le tasse sul lavoro o qualche altra imposta, senza che a uno che è uno venga da dire: tagliamo invece radicalmente le spese militari, a partire dalle portaerei e dai cacciabombardieri, eliminiamo le missioni all’estero, smettiamo di mandare marò sparatori a 500 euro al giorno a “proteggere” navi di armatori privati (in zone dove per giunta non si è mai visto un pirata, come documenta chiaramente l’ottimo libro di Matteo Miavaldi, I due Marò¸ Alegre).

Sarebbe meglio investire quei soldi per proteggere la nostra flotta mercantile dalla leggerezza di chi la guida (isola del Giglio), o dalla insufficienza dei sistemi di sicurezza (Genova), ma a quanto pare le spese militari sono una priorità assoluta, con qualsiasi governo.

Ogni tanto la questione delle spese militari riaffiora sul blog di Grillo, e mi va bene, ma vorrei invece che rimbombasse ogni giorno nelle aule parlamentari, in ogni occasione, come Catone ripeteva incessantemente che Cartagine doveva essere distrutta. Qualunque sia il tema all’ordine del giorno, dato che questa è la questione cruciale e la prima spiegazione del folle debito che ci fanno pagare. Solo così ci si può far sentire…

Solo così si può far risaltare la miseria morale del PD, e non solo perché non vota Rodotà come presidente, o perché fa gli inciuci con il partito di Berlusconi. Tanto più che gli inciuci in fondo sono logici, dato che i programmi reali dei due partiti sono molto simili, e alla lunga sono accettati dalla residua base di origine “comunista”, perché vengono da una antica tradizione, contro cui si mugugna un po’, ma che poi si accetta.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Commenti all'articolo

  • Di (---.---.---.71) 9 maggio 2013 17:11

    Nella così detta "sinistra", la cecità dei molti, forse è dovuta alla pazienza che ancora esiste tra i pochi. L’unione "a freddo" dei residui dei due più numerosi partiti politici della prima repubblica, non poteva che comportare lo zigzagare sul percorso del nuovo oggetto politico; per essere soggetto avrebbe dovuto necessariamente avere dei "principii" univoci e, sopra tutto sentiti da tutta la base del nuovo contenitore politico; base che a freddo ha solo assimilato lo spirito politico del partito, essere uniti per arrivare dove si può contare; l’unione delle due anime vecchie "a caldo" avrebbe dovuto comportare, nella gestione delle linee programmatiche, la voce ed il controllo del nascente movimento o partito, cosa non voluta dai residui dei vertici dei due ex partiti. E’ sempre dal basso che può nascere l’unione, non dal vertice; non si scioglie un partito per delle modifiche di percorso, occorre il coraggio di subire le conseguenze delle proprie azioni, il partito non può essere proprietà di chi lo dirige oggi, il partito è proprietà della storia, dalla fondazione all’elettorato dell’ultima elezione. 

  • Di (---.---.---.184) 9 maggio 2013 17:28

    Non sono convinto che il problema fosse l’unione a caldo o a freddo. Oggi è difficile capirlo ma in origine PCI e DC avevano orientamenti e base sociale diametralmente contrapposti, era assurdo puntare all’unione. Il risultato è stata la sparizione di ogni caratterizzazione di sinistra, sostituita da un surrogato: la polemica nei confronti di Berlusconi. La DC ha trionfato egemonizzando entrambi gli schieramenti.

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