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Addio Morosini. E’ morto un campione

Perché Piermario Morosini, il calciatore ucciso sabato da un infarto mentre, con il suo Livorno, stava giocando a Pescara contro la squadra locale, questo era: un campione.

Lo so che giocava "solo" in serie B e che il suo nome, probabilmente, non era mai finito sulle prime pagine dei giornali sportivi, ma per arrivare al suo livello bisogna essere, comunque, dannatamente bravi. Bravo come può essere solo uno su mille dei tanti che provano a prendere a calci un pallone; come si può diventare solo se si hanno delle doti speciali e, soprattutto, una grandissima passione. Una passione vera, di quelle che ti prendono da bambino e non ti mollano più; di quelle che nessuna cifra può comperare.

Questo è pure tra quel che di bello resta nel calcio: i mercanti possono guadagnarvi sopra, gli stessi atleti possono tradirne la santità, vendendo una partita o un campionato, ma, contrariamente a quanto spesso accade in altri ambiti, per emergervi serve un nocciolo di vero, indiscutibile, valore. Anche nel nostro paese, dove tutti sembrano aver preso delle scorciatoie per riuscire, dove tutto o quasi è nelle mani dei figli e degli amici di, nessuna raccomandazione può metterti in grado di tenere il campo; nessuna spinta può trasformare un brocco in un giocatore, anche solo di serie B. Per quanti difetti possano avere i calciatori, tra loro di Trota non ve ne sono.

Capito questo, quanto immensamente debbano amare o avere amato il proprio lavoro per riuscire a farlo, tutto il resto che li riguarda è discutibile. Sono pagati troppo? Considerando quanta gente guadagna sulle loro gambe, a me pare proprio di no.

Tutto il denaro che ruota loro attorno, finisce per renderli delle macchine da spettacolo? Macchine che per reggere il ritmo necessitano di assumere “porcate”?

Non ci fosse un solo spettatore e dovessero pagare di tasca propria per giocare, le eventuali porcate girerebbero lo stesso. Si distruggono di steroidi i culturisti dilettanti; si “facevano” dei più incredibili beveroni i ciclisti dei tempi eroici. Per arrivare alla vittoria, con tutto il suo valore propagandistico, i paesi del blocco orientale avevano traforato i propri atleti olimpici in cavie umane. C’era la guerra fredda, ma sportivi di ogni paese continuano a doparsi anche oggi, e per gareggiare in specialità semisconosciute dove  non gira un solo euro.

Alla radice tutto c’è voglia di vincere che è l’altra molla di qualunque atleta in ogni epoca.

E’ addirittura un controsenso chiedersi se uno sportivo non dia troppo di sé. Se, con o senza l’aiuto della chimica, che certo rende il tutto più pericoloso, non stia portando il proprio corpo oltre il limite di rottura. E’ quello che fa chiunque competa, a qualunque livello; è il punto a cui arriva qualunque mezzofondista o ciclista della domenica (e infatti gli infarti si sprecano). L’allenamento, l’età, la forma fisica, spostano il limite, ma sempre lì, al massimo delle proprie possibilità, arriva l’atleta. Perché davanti le telecamere o su un campetto di periferia questa è la natura dello sport; un’occasione, spesso l’unica che offra la vita, nell’onestà della sfida aperta, regolata da poche norme e da un arbitro, il meglio di sé.

Questa può essere anche la consolazione di chi ha amato Piemario Morosini; di chi gli è stato vicino nella sua vita breve e per tante ragioni sfortunata: quando è morto, indossando la maglia del Livorno, stava facendo al meglio quel che più amava, qualcosa che a molti sarà sempre negato e che tantissimi non hanno mai neppure provato a fare.

Era, appunto, un campione.

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