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Una visione di insieme, Corrida #24

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La cella aveva un odore nauseabondo e limitava completamente le percezioni visive e temporali: dalla piccola finestra si riusciva a vedere appena un angolo di esterno, ma non filtrava molta luce. Mi addormentavo e mi svegliavo di continuo, senza capire lo scorrere del tempo, senza afferrare da quanto tempo mi trovavo lì e senza capire quanto ci sarei stato.
Avevo l’idea che ci fossero altre celle adiacenti, in primo luogo ne ero convinto perchè sarebbe stata ridicola una sola cella, e di conseguenza, se ce ne fosse stata una sola sarebbe stata stipata (o il mondo era forse diventato buono all’improvviso?), e credevo di sentire qualcosa attraverso i muri spessi. Erano gemiti, forse, che sembravano confondersi con respiri affannosi, di sonno, e talvolta, un graffiante rumore di unghie sulle pareti.
Eravamo compagni e tuttavia inconsapevoli.

Venni preso da quella sensazione che ti assale quando credi di stare vivendo un momento davvero fondamentale della tua vita, mi sentii trasalire all’idea di lasciarlo un giorno stare lì, in un cantuccio della memoria, abbandonato, e decisi di stamparlo nella mente, di dedicare qualche neurone al solo scopo di conservare quegli istanti, minuti, ore o giorni che fossero, nella mia mente.
E decisi di portare con me anche i miei compagni, pur non conoscendoli, e fu così che provai a immaginare i loro volti, le loro azioni, i loro perchè, la loro vita.

Claudio Costenares, giovane, direi sulla trentina, abito lercio, di quel grigio sporco che sa di lavoro e sudore. Ha i capelli rasati e se ne sta rannicchiato in un angolo della cella bestemmiando e imprecando, con la sola idea e voglia di uscire e farla pagare a chi sta fuori. Una specie di Robin Hood del ghetto.

Hermano Claipol, giovane anche lui, ma più sbandato. Deve aver bevuto molto e fatto un casino che non se ne vedeva da tempo. Ha i capelli corti, neri, pantaloni attillati, ma non per moda, non esiste moda qui, semplicemente perchè non ne vuole comprare altri ed i suoi sono di due taglie sotto. Ha la camminata decisa e gli piace la sensazione dell’adrenalina che gli gonfia le vene della testa. Ribalta tavolini come non nulla durante la fiesta.


Federico Garcia Lopez, sulla cinquantina. Lo conoscono tutti in città, tranne me ovviamente, è spagnolo, ma agisce da messicano. Se ne sta sbronzo non curante del tempo che passa a perpetrare la sua siesta, senza darsi troppe arie. Un fannullone rimasto a dormire nel posto sbagliato durnate il coprifuoco.

Fernando Olivares, qurantanni, ma portati male. I suoi occhi luccicano di rabbia, ha picchiato sua moglie stasera, dopo averla trovata a letto con un altro, e non riesce a levarsi dalla mente qeull’immagine. Ansima contro la porta della cella, ringhia, gratta le unghie sui muri, scalcia e si dispera. Il suo equilibrio è stato mandato a puttane, assieme alla sua coscienza. Lo tengono qui in fermo per la paura che possa scatenare una rissa e qualche omicidio.

Francois Langlois, detto El Gato, un ladro, semplicemente. Approfittava della fiesta per andarsene in giro a rubacchiare qua e là. Ha circa sessanta anni, ma il suo è lo sguardo più vispo che abbia mai visto, si veste bene ed ha l’aria di un ufficiale dell’esercito. Scaltro, movenze feline, se ne sta tranquillo, come chi conosce ciò che ha davanti, e non ansima. Dopotutto la paura si manifesta davanti a ciò che non si conosce.

Non so, non ricordo se ci fossero nel mio immaginario altre figure, i loro custodi cerebrali, se c’erano, devo aver dichiarato forfait. Tuttavia già questi basterebbero a scatenare un bel po’ di panico in quela vecchia città e già questi bastarono al mio immaginario, teso a cercare di raccogliere una visione di insieme.

E’ così teatrale, falso e sorprendente pensare che tutto sia una commedia, pensare a tutti quegli attori principali che nessuno di noi nomina mai, ma solo, guardate bene, perchè ognuno di noi crede di essere la prima donna sul palcoscenico. Ma, da dove questa certezza, avete mai visto un regista che abbia detto che ciò che accadeva a voi fosse la prima scena, mentre il resto solo e solamente comparse, campolungo e scorrimento?!

Non è possibile purtroppo avere una visione di insieme. Troppo complicato. E’ anche molto semplice darvene una dimostrazione, basta affacciarsi sul mio balcone ed iniziare a guardare e descrivere cosa sta succedendo, tutto in contemporanea, tutto legato a un sottilissimo filo di destino.
La signora Amelie Blonchard passeggia con il cane appena tosato e improfumato, con la sua aria da snob protagonista, la sua caminata a un metro e mezzo da terra viene interrotta per pochi istanti da un cartello di lavori in corso, si tratta del cantiere dove sta lavorando Pierre, operaio, ventisettenne, una gran brava persona dedita al gusto per il cibo, amante in primo luogo ello stufato di sua madre, che guarda caso è proprio al supermercato a comprare le patate bianche, consigliandosi con Vera, la sua mica del cuore con la quale gioca a bridges ogni venerdì pomeriggio, sorseggiando una mezza tazza di the e sgranocchiando qualcuno di quei buonissimi biscotti al burro che le regala il nipote Fernand, giovane marinaio di Roscoff, da vento in vela e buona pesca a tutti ci si vede stasera per un pasto frugale e ripartire, le sue mani puzzano spesso di pesce, ma le donne sembrano non guardarci un granchè vista la sua somiglianza estrema con un noto attore americano... e così via, all’infinito...

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