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Un’opera per questi giorni: Henri Matisse, La Danza

"L'Arte non conosce né confini né popoli: conosce solo l’umanità”

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Henri Matisse, La Danza, 1910.
Olio su tela di 391 x 260 cm. Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo.

Blu. Giallo. Rosso. In loro c'è della magia; possono ammaliare. Dovrebbe capirlo chi regala dei colori; chi li riceve rischia di restarne stregato. Non doveva saperlo Madame Matisse quando, nel 1889, ne comperò una scatola al figlio che, costretto a letto da mesi, dopo aver rischiato di morire d’appendicite, moriva di noia. Povero Henri, d’altra parte, era tornato a casa, a Bohain-en-Vermandois, nella provincia piccarda, a due passi dal Belgio, proprio per la convalescenza. Viveva a Parigi da un paio d’anni, altrimenti. No, non mettetevi strane idee in testa.

Fino ad allora, e andava per i ventun anni, era stato un bravo ragazzo. Anzi, aveva fatto tutto quello che ci si aspetta dal figlio di un rispettabile mercante di granaglie che voglia, prima o poi, a seguirne le orme. Nella capitale c’era andato solo per studiare Giurisprudenza. E per di più, aveva già trovato impiego nella pubblica amministrazione. Niente grilli per la testa, insomma. Nessun interesse per l’arte, soprattutto: non un amico tra gli irregolari di Montparnasse; mai la tentazione di entrare in un museo.

Povero anche Monsieur Matisse. Mettetevi al posto suo. Che fareste, voi, se vostro figlio neo-avvocato, dopo aver giocato per un po’ con i colori, vi dicesse senza alcun preavviso di voler mollare tutto per diventare artista? Beh, è proprio quello che gli succede. Lui prima si sorprende, poi s’incazza. Le prova tutte per convincere il figlio a rinsavire. Niente da fare. Henri, ristabilitosi, a Parigi ci torna, ma solo per frequentare l’Academie Julian.

Ha talento, perlomeno. Tanto che nel 1895, Gustave Moreau, pittore che andava per la maggiore, lo invita a lavorare nel proprio studio. Lì Henri si affina. Sente discutere del loro mestiere alcuni degli artisti più celebrati. Migliora la propria tecnica copiando i capolavori del Louvre. Diventa pittore di tocco sensibile e, stranamente, visto quel che farà dopo, “grande esperto nell’arte dei grigi”. Così lo presentò nel 1896 il suo amico Evenpoel. Tutte le potenzialità del colore, infatti, le scopre solo poi. Dapprima grazie John Russel, un pittore australiano che gli mostra i lavori degli ancora semi-sconosciuti impressionisti. Poi, grazie a Signac. Quando lo incontra, Matisse è in piena trasformazione. Ha stretto amicizia con Derain e ha cominciato a studiare Cézanne, che arriverà a chiamare “il mio maestro” (come infiniti altri, dalla fine dell’800 ad oggi). Ne acquista anche un quadro, Le tre bagnanti, e dirà d’aver appreso da lui a calibrare le composizioni e a considerare i toni “delle forze che bisogna equilibrare”. E’ però proprio Signac che gli fa scoprire il valore espressivo dei colori più brillanti. Lo fa mostrandoglieli sulle tele dei propri lavori e facendoglieli ritrovare, ancor più vividi, lungo la Costa Azzurra. E’ il 1904, e Matisse ha appena organizzato la propria prima personale, quando Signac lo invita a trascorre l’estate nella sua villa di Saint Tropez, allora un villaggio di pescatori. Dipingono en plein air. Matisse si avvicina al divisionismo del suo ospite, in quadri come La terrazza a Saint Tropez; soprattutto si imbeve di quell’ atmosfera. Sì, come ha già fatto con altri pittori nordici, il sole provenzale gli infiamma la tavolozza.

Matisse, sarebbe diventato uno dei pittori più influenti del ‘900. La Danza è la sua opera più celebre; quella che corona la sua prima maturazione. Ora esposta all’Ermitage di San Pietroburgo, è stata completata solo nel 1910, ma è da quell’estate che arrivano il colore del suo cielo, “il più blu dei blu”, e quel suo verde. Tanto intensi da parere smalti, sono, come disse lui stesso, i colori del Mediterraneo d’agosto e delle calotte dei pini marittimi. Per farci una ragione della loro stesura tanto uniforme, tanto compatta, dobbiamo però andare in vacanza con Matisse anche nel 1905.

Quell’anno passa l’estate in compagnia di André Derain. Vanno a Coillure, un altro villaggio di pescatori, vicino al confine spagnolo. Matisse, che si sta già lasciando alle spalle gli esperimenti divisionisti, dipinge paesaggi usando colori ancor più brillanti e puri. Poi, incontra Daniel de Monfreid, che ha casa da quelle parti. E’ anche lui un pittore ed è stato grande amico di Gauguin. Ne possiede alcune tele del periodo tahitiano e gliele: le campiture compatte, solidamente descritte dal contorno scuro, prima che altrove sono lì.

Tornato a Parigi, Matisse non le adotta subito. Si affida ancora al valore espressivo della pennellata nella Donna con cappello, un ritratto di Amélie Noelie Parayre, sua moglie dal 1896. I colori, però, vi sono già usati senza intento descrittivo; sono messi sulla tela solo per quel che comunicano in sé e in relazione tra loro. E’ in questo senso un’opera espressionista ed è per questo uso del colore “teso verso il massimo dell’espressione” che, nonostante la sua impostazione tutto sommato tradizionale, desta enorme scandalo al Salon D’Automne. Su Matisse e su Derain, De Vlaminck e gli altri amici che espongono con lui, fioccano gli insulti. Uno, lanciato dal critico Vauxcelles ha particolare fortuna. E’ fauves, belve, che adesso troviamo come nome del movimento sui manuali.

E’ però in un altro ritratto della moglie, dipinto poco dopo, e non esposto al Salon, che Matisse metabolizza la lezione di Gauguin. Nel Ritratto con la riga verde, il ruolo delle pennellate è del tutto secondario. Sono i colori puri e luminosi, a cominciare proprio dal verde della linea che divide in due il viso, a narrare tutto; a comporre un gioco di contrasti ed equilibri che determina un proprio, solo proprio, “spazio spirituale”. Partendo dalle tahitiane, passando per questo ritratto e procedendo un poco oltre lungo questa via, ci è ora facile capire come si arrivi alla Danza.

Un titolo che, in sé, testimonia il momento in cui il quadro fu dipinto. Mentre tentano di completare la rottura con la tradizione avviata dagli impressionisti, mentre cercano quelli che Gombrich, in un capitolo della sua Storia dell’arte, definisce “nuovi standard”, gli artisti, chiamati ad esprimere l’indicibile, sentono venir meno la classica vicinanza alla letteratura. Guardano piuttosto alla musica, come disciplina affine; specie a quella resa esperienza visuale dal balletto. Nella Parigi di inizio 900 la danza è l’arte guida, o poco ci manca. Fa sensazione, a dire il vero anche per gli scarsi veli di cui si copre, Isadora Duncan, capace di dare forma, con il proprio corpo, ai sentimenti più profondi. Scuote il pubblico, e le tavole dei palcoscenici, l’energia dei balletti russi di Sergej Djagilev: spettacoli che attingono alla tradizione popolare e portano in scena quel che per i parigini è esotico e primordiale. Sembrano arrivare da lontano, nel tempo e nello spazio; da là dove pittori e scultori stanno cominciando a guardare. Perché lo fanno? Perché si interessano all’arte primitiva o medioevale, africana o orientale? Non una sola riposta. Alcuni, come già i romantici, subiscono il fascino epidermico, sensuale, delle decorazioni arabe. Altri, cercano in tradizioni diverse la via d’uscita dalla crisi della nostra. Altri ancora vedono nelle opere degli africani una testimonianza incorrotta di quanto di più vero e profondo vi sia nell’arte. Matisse, appartiene a tutte queste categorie e in particolare nell’ultima. Non si limita, però, ad osservare la scultura africana con la benevolenza che Rousseau riservava al buon selvaggio; con grande umiltà, cerca di apprenderne le lezioni di sintesi offerta da quegli scultori che considera colleghi. Nel 1911, presentando l’Almanacco del Blaue Reiter, Kandinskij e Marc scriveranno “Quell’opera globale che si chiama Arte non conosce né confini né popoli: conosce l’umanità”. E’ una frase che potrebbe essere di Matisse, come erano alcune delle opere riprodotte in quella pubblicazione.

Torniamo a guardare La Danza. Osserviamo il cerchio descritto dalle danzatrici. Sono dipinte di un rosa tanto intenso da essere quasi rosso. L’unico colore che potesse andarci, spiega lo stesso Matisse, una volta deciso di usare quel blu e quel verde; che potesse fare da contrasto e contrappeso a questi. Sono nude. Si tengono per mano. Non lo facessero, una paio di loro rischierebbero di cadere, tanto frenetico appare il loro ballo, tanto al limite dell’equilibrio sembra la posizione dei loro corpi. Sono vive, vitali, e ci comunicano la loro gioia di vivere. Una felicità, che non è però delirio; che appare misurata, aristotelica. Anzi, propria del Matisse che scrisse di volere “un arte d’equilibrio, purezza e della tranquillità, (...) che sia (…) per l’uomo d’affari come per il letterato, un lenitivo, un calmante, qualcosa di simile ad una poltrona che lo riposi dalle sue fatiche”. Un effetto cui contribuisce il modo in cui sono disegnati quei corpi: con un contrappunto di linee semplicissime, tanto fluide da sembrare tracciate d’impeto. Da sembrare solo. In realtà sono frutto di decine di schizzi e di un bozzetto che Matisse ha realizzato nel 1909 (La Danza ora al MoMA di New York) già grande quanto l’opera finita. Studiate e calibrate, quelle linee sono soprattutto poche e tutte indispensabili: appunto come quelle che usano gli scultori Fang nelle loro maschere (e sappiamo con certezza che Derain ne possedeva almeno una) o quelli Ashanti nelle loro bambole.

Nel 1908 Matisse pubblicò Notes d’un peintre, con le sue riflessioni sull’arte. Tra l’altro vi si legge: “Un centimetro quadrato di blu non equivale a un metro quadro dello stesso blu”. Una ragione in più per ricordare che La Danza è una tela enorme. Misura 3,9 x 2,6 m. Non solo. Assieme a questa, Matisse ne dipinse un’altra delle stesse dimensioni: La Musica. Gli erano entrambe state commissionate dallo straricco moscovita Sergei Shchukin, a modo suo un’altra vittima della magia dei colori. Dopo aver comprato un Monet, durante un viaggio a Parigi nl 1897, Shchukin aveva poi continuato a collezionare opere impressioniste e post-impressioniste, rivaleggiando col proprio concittadino ed amico Morozov, fino a possederne più di 200, tra cui tredici Monet, tre Renoir, otto Cezanne e quattro Van Gogh. Possedeva già anche otto altre sue opere, quando commissionò a Matisse le due grandi tele destinate ad essere appese ai lati della scalinata, nel grande salone del suo palazzo. A collocarle là, provvide poi lo stesso pittore, che nel 1911 si recò apposta a San Pietroburgo. Un viaggio lungo come quello che avrebbe continuato a compiere, dentro il colore, fino alla morte, nel 1954. Lo stesso viaggio che dovette compiere, nell’altro senso e in gran fretta, Sergei Shchukin nel 1917. Allo scoppio della Rivoluzione, infatti, ebbe l’intelligenza di lasciarsi alle spalle tutto e di rifugiarsi a Nizza. Non so poi cosa ne sia stato di lui. Sicuramente avrà continuato ad amare i colori. Il rosso, forse, solo un po’ meno di prima.

P.S. Dopo la Rivoluzione, le case di Shchukin e Morozov, divennero le sezioni I e II del Museo Statale della Nuova Arte Occidentale. Nel 1928, le due collezioni furono unite e il museo ebbe una sede unica, nel palazzo di Morozov. Resto aperto fino al 1948, quando Stalin ne firmò il decreto di chiusura perché esibiva “arte borghese, cosmopolita e d’orientamento sbagliato”. Ricordando Hitler e la sua crociata contro l’arte degenerata, pare proprio che l’arte moderna non sia per dittatori.

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