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ThyssenKrupp, la fabbrica dei tedeschi

Lunedì sono state depositate le motivazioni della sentenza di condanna alla Thyssenkrup.

Le chiamano morti bianche. Ma il termine non rende l’idea. Vite spezzate e famiglie distrutte, spesso a causa di misure di sicurezza non adeguate o di noncuranza dei datori di lavoro. A volte, tragici incidenti.

Quello che accadde nel dicembre 2007 poteva sembrare proprio questo, un maledetto incidente, che causò la morte di sette operai della ThyssenKrupp. Ma non fu così. La sentenza pronunciata dalla Corte d’Assise di Torino stabilì che si trattava di omicidio volontario con dolo eventuale e condannò a pene molto pesanti dirigenti, responsabile della sicurezza e direttore dello stabilimento, oltre all’amministratore delegato. Una sentenza storica.

Le motivazioni depositate l'altroieri in cancelleria spiegano meglio quanto scritto nella sentenza dell’aprile di quest’anno. Harald Espenhahn, amministratore delegato della ThyssenKrupp in Italia, conosceva i rischi che si correvano in quello stabilimento, ma ha accettato il rischio che si verificasse un incidente “decidendo di azzerare qualsiasi intervento di ‘fire prevention’ e di continuare la produzione in quelle condizioni”, visto che lo era prevista la chiusura di quello stabilimento torinese e lo spostamento in quello di Terni.

Si legge nelle motivazioni che “gli elementi di conoscenza ed all’alto grado della consapevolezza” dell’ad tedesco inducono “la Corte a ritenere che certamente Espenhahn si fosse ‘rappresentato’ la concreta possibilità, la probabilità del verificarsi di un incendio, di un infortunio anche mortale sulla linea 5 di Torino, e che altrettanto certamente, omettendo qualsiasi intervento di ‘fire prevention’ in tutto lo stabilimento e anche sulla linea 5 e anche nella zona di entrata della linea 5, ne avesse effettivamente accettato il rischio”. Espenhahn conosceva il “fatto che lo stabilimento di Torino fosse privo del certificato di prevenzione incendi” sebbene rientrasse tra le industrie a “rischio di incidente rilevante”.

La decisione dell’ad di non effettuare interventi di prevenzione degli incendi nello stabilimento “non si può certo ritenere (…) sia stata presa con leggerezza o non meditata o in modo irrazionale”. Per questi motivi, i giudici ritengono che Herald Espenhahn, meriti “il minimo della pena” prevista per l’omicidio volontario che, in questo caso, calcolando le attenuanti, è di sedici anni e sei mesi di reclusione.

 Questa sentenza e le sue motivazioni sono un passo storico nella giurisprudenza sugli incedenti sul posto di lavoro. Troppe volte abbiamo visto supermanager pagare somme minime alle famiglie delle vittime. Troppe volte i lavoratori hanno pagato con mutilazioni, infortuni gravissimi o addirittura con la vita le inadempienza dei loro datori di lavoro, la scarsa osservanza della normativa antinfortunistica. E quasi mai questi temi sono stati al centro dell’agenda politica, che non si è presa la briga di prevedere controlli seri e rigorosi sui posti di lavoro.

(Nella foto il pm Raffaele Guariniello)

Da tutti i soggetti in campo (lavoratori, imprenditori, sindacati, politica) ci si aspetta un futuro diverso, che forse questa sentenza ha contribuirà a disegnare.

(Il testo della sentenza)

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