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Tangentopoli, vent’anni dopo: la politica è cambiata. In peggio

Nel febbraio 1992 partì l’inchiesta “Mani pulite”, che fece crollare la Prima Repubblica. Oggi la storia si ripete e altri scandali stanno seppellendo anche la Seconda Repubblica

Lunedì 17 febbraio 1992. L’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, riceve la visita dell’imprenditore Luca Magni, gestore di una impresa di pulizie. Magni consegna a Chiesa una tangente di sette milioni di lire, prima tranche di una mazzetta di quattordici milioni di lire. L’imprenditore, su suggerimento di Antonio Di Pietro, pubblico ministero della Procura di Milano, ha portato con sé una telecamera nascosta, con cui riprende la scena della concussione. Subito dopo, nella stanza irrompe un gruppo di carabinieri, che sequestra i soldi a Chiesa, arrestandolo in flagranza di reato. L’ingegnere confessa e comincia a collaborare con i magistrati, coinvolgendo vari politici milanesi, tra cui gli esponenti del Psi Walter Armanini, Paolo Pillitteri e Carlo Tognoli.

L’indagine, denominata “Mani pulite”, si allargò a macchia d’olio e a Milano si organizzò un pool di magistrati, costituito dal procuratore capo Francesco Saverio Borrelli e diretto dal suo vice Gerardo D’Ambrosio. All’inizio il pool comprendeva, oltre a Di Pietro, anche Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, cui si aggiunsero successivamente Francesco Greco, Paolo Ielo e Tiziana Parenti (nel 1994, in seguito alle dimissioni di Di Pietro dalla magistratura, subentrarono Ilda Boccassini e Armando Spataro). L’inchiesta ben presto si estese a tutta la penisola e, tra il 1992 e il 1994, settanta procure indagarono su 12 mila persone, 5 mila delle quali vennero poi processate. Nello scandalo furono coinvolti noti personaggi della politica italiana, tra cui i democristiani Saverio Citaristi, Arnaldo Forlani, Antonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, i socialisti Bettino Craxi, Gianni De Michelis e Claudio Martelli, i pidiessini Gianni Cervetti, Primo Greganti, Epifanio Licalzi e Sergio Soave, i liberali Renato Altissimo e Francesco De Lorenzo, i repubblicani Antonio Del Pennino e Giorgio La Malfa, i socialdemocratici Pietro Longo e Carlo Vizzini, i leghisti Umberto Bossi e Alessandro Patelli; il missino Giuseppe Resta.

Anche qualche grosso imprenditore finì nell’occhio del ciclone, ad esempio Raul Gardini, Salvatore Ligresti e Cesare Romiti. Alcuni degli inquisiti si tolsero la vita: il primo fu, nel giugno del 1992, Renato Amorese, ex segretario del Psi di Lodi, seguito qualche mese dopo dall’imprenditore Mario Majocchi e dal deputato del Psi Sergio Moroni. Nel luglio del 1993 si uccise nel carcere di San Vittore l’ex presidente dell’Eni Gabriele Cagliari e alcuni giorni dopo si ammazzò pure Gardini. Tra i suicidi riferibili alle inchieste di Tangentopoli ci fu anche quello di Sergio Castellari, ex direttore generale del Ministero per le Partecipazioni statali, sulla cui morte tuttavia si nutrirono fin da subito forti perplessità, in quanto le modalità di esecuzione lasciarono il dubbio che si fosse trattato di un omicidio mascherato da suicidio.

Come sono andati a finire i processi relativi al filone milanese di Tangentopoli? I dati disponibili, aggiornati al 15 gennaio 2002, sono i seguenti: 3.200 le persone per le quali è stato richiesto il rinvio a giudizio; 467 le posizioni ancora pendenti nel 2002; 2.735 gli imputati processati davanti al Giudice per l’udienza preliminare o al Tribunale di Milano; 465 le posizioni trasmesse ad altre sedi o autorità giudiziarie; 1.254 i condannati definitivi; 430 gli assolti nel merito, cioè estranei ai fatti (il 15,72%); 422 gli assolti per prescrizione; 58 i prosciolti per estinzione del reato, cioè per morte dell’imputato o per modifiche legislative posteriori alle indagini (cfr. Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani Pulite. La vera storia, 20 anni dopo, Chiarelettere pp. 823-824). Tenendo conto che, in media, il 35% delle persone inquisite viene assolto alla fine dei processi, le indagini svolte a Milano non si sono certo rivelate un flop. E, poiché i giudici milanesi non hanno risparmiato nemmeno gli esponenti dell’ex-Pci, non ha senso parlare, a nostro avviso, di “complotto delle toghe rosse” o sostenere, come fa ad esempio Tiziana Maiolo nel saggio Tangentopoli(Rubbettino), che si trattò di una «operazione politica».

Come correttamente sostiene Paolo Flores d’Arcais, «di Mani Pulite è stato Berlusconi [...] il primo e principale beneficiario [...] e le destre in generale, meglio se estreme» (cfr. Paolo Flores d’Arcais, La rivoluzione liberale di Mani Pulite, in Gli speciali di MicroMega, n. 1/2012, p. 14). I giudici milanesi, del resto, non trovarono indizi sufficienti per incriminare vari dirigenti del Pds, sospettati di aver preso dei finanziamenti illeciti, soprattutto perché Greganti, pur ammettendo di aver intascato le tangenti, si addossò tutte le responsabilità senza coinvolgere – a differenza di Chiesa – altre persone. Tra tutti gli scandali emersi allora, il più clamoroso fu quello che riguardò la maxitangente di 140 miliardi di lire pagata ai principali partiti politici dalla Enimont. La magistratura riuscì a rintracciare solo una parte di quei soldi, che fu così ripartita: circa 13 miliardi a dirigenti della Dc, quasi 12 miliardi a esponenti del Psi, 1 miliardo al Pci-Pds, 300 milioni al Pri e al Psdi, 200 milioni al Pli e alla Lega Nord.

Secondo Gianni Barbacetto, Tangentopoli non fu «solo il sistema delle tangenti (peraltro pesanti: 10 mila miliardi di lire l’anno, secondo i calcoli realizzati nel 1992 dall’economista Mario Deaglio)», ma anche «per le imprese, un sistema di accordi di cartello; e, per i partiti, un sistema di sperpero sistematico dei soldi pubblici» (cfr.Mani pulite, anno zero, inhttp://www.societacivile.it/). Non fu, dunque, per caso se nel 1992 l’Italia, con un rapporto debito pubblico-pil pari al 118%, rischiò la bancarotta: il 16 settembre di quell’anno la lira, crollata sui mercati finanziari internazionali, uscì temporaneamente dal Sistema monetario europeo. Il governo Amato, di conseguenza, fu costretto a varare una manovra finanziaria “lacrime e sangue”, che costò ai contribuenti, in virtù di un esorbitante aumento delle tasse, l’esborso di ben 92 miliardi di lire! Travaglio ricorda che, a causa della corruzione, «nei partiti facevano carriera non i più meritevoli, ma i più ladri, che si compravano pacchetti di false tessere» (cfr. Marco Travaglio, Promemoria, Corvino Meda Editore, p. 26). Anche per tale motivo la classe politica italiana è progressivamente decaduta.

 

Negli anni seguenti si è tentato ripetutamente di denigrare l’operato dei giudici milanesi, accusandoli di protagonismo o addirittura di aver realizzato un golpe, senza valutare in modo oggettivo le risultanze delle loro indagini. La triste verità è che l’Italia di fine Millennio era un Paese dove la corruzione regnava sovrana, senza grandi distinzioni tra “destra” e “sinistra”. E in seguito la situazione non è migliorata. Anzi, nella classifica degli stati meno corrotti del pianeta, siamo retrocessi nel 2011 in sessantanovesima posizione. Le tangenti sono continuate anche negli anni più recenti, coinvolgendo deputati, amministratori locali, faccendieri e imprenditori della Seconda Repubblica. Si sono reiterate nel tempo le logge massoniche deviate (P3 e P4) e lo scorso anno lo Stato italiano ha rischiato nuovamente la bancarotta. Recentemente è pure esploso un nuovo scandalo relativo ai rimborsi elettorali, svaniti nel nulla, di due ex partiti, Alleanza nazionale e La Margherita. Il Belpaese, quindi, sembra perennemente soggetto ai “ricorsi storici” di vichiana memoria, per cui nel tempo si ripropongono sempre le medesime trame oscure e, alla fine, ritornano sempre le stesse “manovre correttive”.

di Giuseppe Licandro

(LM MAGAZINE n. 22, 14 febbraio 2012, supplemento a LucidaMente, anno VII, n. 74, febbraio 2012)

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