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TANGO, Corrida #44

L’unico racconto pubblicato a puntate sulla rete che è un po’ come la vita: si sa quando e come inizia, ma non si sa mai bene dove vada a finire.

per chi si fosse perso qualcosa, eccovi la puntata precedente

.44

Ninfa, la nave che ci stava traghettando da una parte all’altra dell’Oceano, non aveva che un solo ponte, così che le facce, le persone, dopo pochi giorni divenivano tutte familiari.

Riconoscevi ad esempio Juliette, una giovane violinista di origine polacca, nata in Francia e fuggita con un colpo di reni, cercando di trascinarsi tra la polvere e le note, per raggiungere un destino migliore, o forse solamente il domani.
Aveva i capelli castano chiaro, gli occhi intensamente verdi e tristi, solcati da presentimenti e presagi da animale in fuga, chiusi nel silenzio delle labbra serrate.
Non parlava quasi mai, osservava le onde infrangersi contro la chiglia, ed ogni tanto comunicava il suo oceano interiore pizzicando le corde, con discrezione, quasi bussando alla porta per chiedere di entrare.
Le note avvolgevano una lenta tristezza che dichiarava un fiume in piena bloccato da una diga, costretto a scorrere rantolando in timidi ruscelli, bagnando appena il letto di quello che era un fiume.

A volte a lei si univa Pancho, un uomo di mezza età, spesso ubriaco, che sapeva suonare l’armonica. Talvolta duettavano e l’incontro era una danza, che spostava i passi da malinconia a furore, da stridolio a dolcezza, da sonata a tango.
A differenza di lei, sempre corrucciata e concentrata sulle note, Pancho parlava mentre suonava, a volte sembrava fare l’amore con un caldo corpo di donna, liberando assensuìi e piccoli sospiri, altre volte danzava battendo forte i piedi ed urlava, alla gioia e al dolore, alla vita in una sola parola.



Quando i due si muovevano in questa passeggiata di mare a ritmo di tango, il pontile diveniva una improvvisa sala da ballo, cullata dalla luna, di notte, e bagnata e inzuppata di luce di giorno.
Le coppiette si formavano e si dividevano, gli uomini più arditi si avvicinavano alle donne e chiedevano la mano per un ballo. Alcune di loro si lanciavano, con tutto l’impeto passionale del tango, altre semplicemente arrossivano e scappavano a farsi ombra lasciando il poveretto con la faccia sbiadita e le mani in mano.

Io me ne stavo a guardare, dal bordo, come sull’orlo di un burrone, come uno sche attratto dal vuote, tenda a reggersi ad un corrimano, con tutta la paura di cascare.
Guardavo questo umile peschereccio danzare a ritmo di tango, confondere nazioni, musiche e nazionalità, solcare le onde e bagnare i danzanti con qualche onda più grossolana, decisamente fuori ritmo.
Italiani, spagnoli, zingari, portoghesi, tutti brindavano alla vita rendendo rumorosi i passi, pestando quelle fragili travi scricchiolanti, incuranti del domani, ardenti per un oggi intrepido ed emozionante.

Poi come d’incanto, si stancavano tutti di ballare. Le coppiette che si erano formate a volte continuavano la conoscenza spingendosi ad attraversare la notte o il tramonto, forse avvolgendosi di un sogno e di una speranza più fote di un ballo. Altre semplicemente si sorridevano e si staccavo continuando a guardarsi negli occhi, studiandosi con fare animale, seguendo quel gioco che è antico come l’uomo stesso.

Solo allora, spalancando gli occhi in un respiro sonoro, Juliette osservava la gente felice e curvava leggermente la bocca scoprendo una timidissima onda sulle labbra.
E se era notte si accasciava sul suo giaciglio di coperte e sale marino rappreso, se era giorno si sedeva a sfidare l’orizzonte con gli occhi.

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