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Storia di un male comune

"Sulla viltà. Anatomia e storia di una male comune" è un saggio chiaro e quasi impegnativo del professor Peppino Ortoleva (Einaudi, 2021, 281 pagine).

La vita attuale degli uomini è molto impegnativa, anche perchè i contatti sociali sono aumentati in modo considerevole, e abbiamo sempre più a che fare con persone che non conosciamo o che conosciamo pochissimo. Oppure che crediamo di conoscere. La comune vigliaccheria amorosa sembra piuttosto comune. Forse la vigliaccheria andrebbe intesa più "come mancanza di franchezza, come un venir meno alla personale dignità" (introduzione). La viltà amorosa è molto difficile da definire, mentre la viltà in guerra è facilmente riconoscibile.

La storia ha dimostrato "che troppe volte nel corso dei secoli proprio l'appello al coraggio, o viceversa l'accusa di codardia, sono serviti ai gruppi dominanti per dare fondamenta "morali" al loro potere e per imporre sacrifici a coloro che sottostavano ai loro ordini". Probabilmente è più facile capire alcune cose fondamentali oggi, quando le trasformazioni stanno procedendo più velocemente. Oramai l'utilizzo della "codardia come strumento di potere e di controlllo è diventato sistematico nelle grandi organizzazioni e nei regimi totalitari" (p. 273) di vario genere.

La storia della nostra civiltà occidentale "affonda le sue radici in alcune contraddizioni profonde dell'umanità" e "riflettere sulla viltà ci può dire qualcosa di importante sulla storia, sulla società, su noi stessi" (p. 13). Ci sono grandi aree buie che prima o poi dovranno essere affrontate, in un modo o in un altro, e che riguardano più generazioni. Certamente "della viltà spesso il potere si è servito e si serve" (p. 17). Il filosofo Montaigne affermava che "la viltà non vada punita, se non in casi eccezionali, con la morte, e neppure con altre gravi pene... perché è preferibile far "salire il sangue al viso d'un uomo piuttosto che spargerlo" citando Tertulliano" (p. 17 e p. 18). Molto meglio il forte disprezzo come punizione.

Ora possiamo affermare che "è vile chi fugge dal pericolo abbandonando coloro che hanno diritto a venire aiutati, lo è chi colpisce altri alle spalle per ottenere vantaggi, lo è chi infierisce sui debboli, su quelli che non possono difendersi. Sono vili coloro che mancano ai propri impegni, nella vita privata come in quella pubblica, e così facendo danneggiano, e feriscono, chi contava su di loro" (introduzione). Purtroppo la viltà fa parte della natura della specie umana. In effetti, "almeno come tentazione, nessuno può dirsene davvero immune", e la condanna e il disprezzo della viltà riguarda moltissime culture.

Proviamo con l'esempio di un soldato giudicato "disertore", e probabilmente finito disperso durante una battaglia, una storia molto rappresentativa che si riferisce alla Seconda Guerra Mondiale. Il soldato Slovik "durante il processo rimase sempre in silenzio e quando per l'ennesima volta gli fu chiesto di ritirare la lettera fece segno al suo difensore che non intendeva farlo. Fu decisa la condanna a morte... nella sentenza si leggeva che Slovik aveva "direttamente sfidato l'autorità dell'esercito americano, e la disciplina futura dipende da una risoluta risposta a questa sfida" (p. 94). Probabilmente è molto facile stare a giudicare, senza aver vissuto o saputo, le vere circostanze degli eventi.

Comunque accade una cosa assurda e forse possibile ancora oggi: quasi tutti i giudici di Slovik, "si sono poi detti convinti che la condanna potesse avere un valore di esempio, ma quasi nessuno si aspettava che fosse portata fino in fondo" (p. 96). E qui la vera ingiustizia risiede nel fatto che nessuno dei 9 ufficiali che lo hanno giudicato avevano mai avuto esperienze di combattimento.

Benedict B. Kimmelman, un membro della corte marziale degli Stati Uniti, che partecipò alla battaglia delle Ardenne (e qui fu fatto prigioniero), "arrivò in sostanza alla conclusione che chi non ha mai direttamente partecipato alla guerra, chi non ha visto l'esperienza del pericolo e il contatto con la violenza, non sarebbe in grado di giudicare nessuno per codardia. La capacità di emettere un giudizio equo sulla viltà e il coraggio, diceva in sostanza Kimmelman, non è separabile dall'esperienza" (p. 96 e p. 97). Forse è molto meglio non aggiungere altro.

Peppino Ortoleva ha insegnato storia e teoria della comunicazione presso l'Università di Torino, e ha svolto l'attività di curatore di musei e mostre, sulla società e sulla tecnologia. Tra le sue pubblicazioni segnalo le seguenti: I movimenti del '68 in Europa e in America (1999); Il secolo dei media (2009); Dal sesso al gioco (2012); Miti a bassa intensità (Einaudi); La comunicazione imperfetta (2023, con Gabriele Balbi).

Nota italiana - Indubbiamente "Diverse ricostruzioni storiche hanno messo in evidenza la durezza delle condanne inflitte dalla giustizia militare di alcuni eserciti durante la grande guerra, in particolare da quello italiano, il più drastico nell'emettere questo tipo di sentenze, dopo quello russo" (p. 91).

Nota personale - Come fa un cittadino a pensare, soprattutto in Italia, che i capi politici si trovino sempre dalla parte della ragione? Comunque il filosofo pedagogista John Dewy era ottimista: "la tendenza più forte degli esseri viventi in generale è semmai al coraggio, quel "muto coraggio dell'animale" che comporta "resistenza, speranza, curiosità, avidità, brama di fare", che non è il solo "slancio vitale" citato da altri filosofi (p. 15). Ma ognuno di noi ha una scala di valori diversa, anche se in una nazione la scala di una persona può sembrare simile a quella di un'altra persona.

Nota finale - Durante l'ultima lezione della sua carriera universitaria Peppino Ortoleva lascia detta una cosa molto importante: la mia volontà era quella di "Mettere in guardia, gli studenti che stavo per lasciare e gli amici e colleghi che sarebbero venuti a salutarmi, da un male comune mi sembrava preferibile al cercare di additare un presunto bene da perseguire" (citazione tratta dai ringraziamenti dell'autore dopo l'introduzione).

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