Sono una mamma, non sono una santa: basta con la tirannia della perfezione
Oggi, più che nel passato, la gravidanza rappresenta un periodo di intensa pressione sociale tra consigli contraddittori, giudizi e ideali di perfezione materna spesso irrealistici. Micaela Grosso affronta il tema sul numero 3/2024 di Nessun Dogma.
Nel momento in cui ho scoperto che sarei diventata madre, devo ammettere, non mi sarei mai immaginata che presto avrei avuto di fronte un così nutrito aggregato di complicazioni e di elementi di cui tener conto. Per la mia esperienza personale, infatti, dal test di gravidanza in poi, ti si prospetta un cammino di monitoraggio costante e di continua attenzione a piccole cose: valori, dosaggi, alimentazione, bevande, parole, comportamenti.
Ti ritrovi malferma in un equilibrio instabile fatto di ginecologhe lassiste che interagiscono con colleghe estremamente puntigliose, amiche entusiaste e spensierate in contrasto con altre piuttosto impensierite, parenti impiccioni o altri del tutto disinteressati e, soprattutto, un oceano di consigli non richiesti. Che, per combinazione, sono sempre in antitesi con quello che hai deciso di fare o che, peggio ancora, hai già fatto.
Se, da un lato, il periodo della gravidanza è effettivamente una parentesi rosa contenuta tra le parole “sono” e “incinta”, un momento gradevole in cui si gode del rispetto e della priorità da parte di tutti e tutte, dall’altro è una fase in cui si incorre in enormi cambiamenti fisici, repentini e spesso molto bruschi.
Una volta terminato, peraltro, ci si ritrova a fare i conti con quanto non si era forse adeguatamente considerato prima, ovvero la gestione della nuova vita. È un periodo intenso e difficile, fatto di alti e bassi che va preso con tanta, tanta filosofia.
È cosa piuttosto nota che lo sia, per carità. Quello che non ci si aspetta è, però, che siano spessissimo proprio le donne, le coetanee o comunque le stesse a condividere la tua condizione, a generare parte del problema e ad alimentarne una visione “tossica”. Non so mettere per iscritto il numero di volte che ho percepito un giudizio, naturalmente negativo, scagliato da una qualche amica, conoscente o, peggio ancora, passante.
Dalle “talebane dell’allattamento” che non esitano a estrarre il seno in qualsiasi situazione, con una frequenza superiore a quella con la quale ci si fuma una sigaretta – e comunque in ogni caso maggiore dell’esigenza di un neonato che abbia almeno 40 giorni – alle puriste del latte materno che disdegnano la possibilità di introdurre la formula artificiale, anche in assenza di produzione, perché imprescindibile per l’alimentazione e la salute del bambino o della bambina.
Per arrivare, infine, alle vicine di casa che riportano le frasi di pediatri favorevoli al latte artificiale, i quali liquidano l’allattamento dicendo: «Non vuole allattare al seno? Usi l’artificiale, non siamo mica in Africa».
È pur vero che, a dirla tutta, quando una persona si affaccia alla maternità non può che confrontarsi, a mio avviso, con una serie di incertezze. Com’è naturale, non avendo mai avuto un’esperienza simile, i dubbi sono molto numerosi ed è davvero semplice, in questa condizione, che le insinuazioni li incrementino.
Spesso ci si può affidare ad esempio all’esperienza di amici, parenti o conoscenti per avere un consiglio o una dritta. È proprio però nel momento del confronto che si alimenta il dilemma, che sorge una nuova precisazione, si presenta una prospettiva differente che, manco a dirlo, è propinata come oracolare.
Fa un po’ sorridere che, rispetto all’esperienza personale dell’interlocutore o dell’interlocutrice interpellata, il punto di vista possa essere anche diametralmente opposto, proprio così come fa ridere – se non piangere – il fatto che quella che oggi è presentata come la scelta più assennata perché “naturale” e dunque assolutamente preferibile (si vedano l’allattamento al seno e il parto naturale) fosse invece valutata molto differentemente anche solo trent’anni fa.
Tra noi ci sono plurimi casi di persone figlie di gestazioni concluse con parti cesarei programmati senza una qualche urgenza o una situazione necessariamente patologica, un allattamento artificiale caldeggiato laddove non direttamente prescritto senza le turbe mentali odierne, e via dicendo. E queste persone, al cui gruppo mi ascrivo, godono spesso di ottima salute.
L’alimentazione dei neonati è un tema che, inevitabilmente, accende anche gli animi più pacati, perché ciascuno, direttamente o indirettamente, ne ha almeno sentito parlare.
Anche grazie a una serie di entità quali La Leche League International (Ong che promuove l’allattamento materno e gestisce canali di consulenza) e alla propaganda inarrestabile di chi pensa di doversene occupare (e ho detto «chi pensa di»), si è diffusa negli ultimi anni la convinzione che sia benefico per i pargoli un allattamento a richiesta, non soggetto a scansioni temporali preimpostate, e ad libitum.
Secondo chi propugna questa visione, sarebbero il bambino o la bambina a determinare “fisiologicamente” e, dunque, nella sola maniera corretta, il momento nel quale far terminare l’allattamento al seno, anche nel caso in cui una decisione del genere potrebbe significare interrompere la fase a un’età piuttosto avanzata.
La ratio dietro a questa teoria risiede nella convinzione che l’allattamento sia un momento totalizzante, sacro e non discutibile, che l’allattato/a deve gestire in autonomia, con le proprie innate competenze. Le stesse competenze, mi viene da dire, che spingono i bebè sotto una certa età a incorrere, se non sorvegliati, in pericoli d’ogni sorta e a mettersi in bocca qualunque cosa: terra, vermi, oggetti pericolosi, cioccolato a ogni pasto.
Non scherzo nel dire che sui social si trovano testimonianze di tutti i tipi, ivi incluse quelle di madri che sostengono di aver “tirato” anche fino ai 9, 10 anni dei figli. Non credo sia discutibile l’opinione di chi stabilisce di lasciar decidere il proprio infante assecondando i suoi voleri, ma temo che sia inoppugnabile il fatto che se ci si permette di levare una voce a contrasto si viene sommerse/i da una shitstorm indiavolata e fervente da parte di chi gli altri bisogni coinvolti, quelli della madre, li calpesta senza remore.
A farlo, purtroppo, sono anche qui quasi sempre altre madri, professioniste sanitarie o altre donne, che sottovalutano o scelgono di ignorare il problema che sta alla base di una decisione contraria e che potrebbe, banalmente, riguardare la scelta sul proprio corpo, il rispetto e l’educazione al rifiuto, l’autoefficacia, la necessità del sonno, l’equilibrio mentale, l’autodeterminazione.
Ci si ritrovano la bocca, le orecchie e gli occhi pieni, ancora una volta, di espressioni quali “modo normale”, “bisogno fisiologico”, “sacrificio dovuto”, “ad alto contatto”, “autentico”, o frasi come: «non ti stressare, altrimenti il latte va via», «se ti impegni ce la fai», «sono sicura che ci riuscirai», che sottendono alla patologizzazione dell’opinione contraria e chiaramente alludono a un fallimento in tutti gli altri casi. Vi è, in questa ricetta, una componente di controllo, ambizione scriteriata e di dipendenza squilibrata dai propri figli che in qualche modo inquina quanto di bello e semplice ci dovrebbe essere.
Anche l’imperversante e pericolosa corrente mistico-ancestrale del ritorno alla natura, che ti raccomanda di «ballare nel dolore delle contrazioni», quella della ricerca quasi spasmodica della sofferenza del travaglio che purtroppo spesso viene definita “amica” e dell’accanimento nei confronti dell’esperienza del parto naturale (ben diverso dalla “disgrazia” e dal “fallimento” del cesareo) a tutti i costi che «va provato» perché ti rende «davvero madre», il rifiuto della peridurale da parte delle partorienti (o, gravissimo! dei sanitari che, a sentire svariate testimonianze, si fanno talvolta beffe del dolore); sono tutti elementi che tratteggiano uno scenario che mi pare segnali una profondissima regressione rispetto alle conquiste degli ultimi 50 anni.
Perfino nei corsi preparto si fatica a parlare di medicalizzazione, come se si trattasse di una deriva malsana e disgraziata di chi non ha avuto abbastanza fortuna o forza di partorire vaginalmente.
E questo è solo un accenno, perché se si prova a cercare informazioni online si viene letteralmente sommerse da una mole di guru improvvisati, osteopati neonatali, ostetriche esperte del pavimento pelvico, ritualistica di dubbio gusto e natura.
Per fortuna sui social e online si trovano influencer che stigmatizzano puntando spesso il dito contro le derive mistiche di sedicenti figure professionali che si fregiano della competenza di seguire le gravidanze delle pazienti e spesso, pericolosamente, tentano di sovrapporsi ai professionisti sanitari. Queste stesse persone pensano di poter gestire temi delicatissimi come il lutto perinatale, le free birth, la salute in generale. Sono argomenti che, nel 2024, pare folle dover ancora sentire. Eppure, se c’è offerta, vien da pensare che ci sia domanda, e da dedurre che questa ondata pseudoscientifica materna attecchisca piuttosto bene, nonostante oggi si abbiano molti strumenti per informarsi.
Al di là di quelle che sono chiaramente catalogabili sotto la definizione, fin troppo gentile, di corbellerie, l’impressione è che ci sia tutto e il contrario di tutto, e non nego che ci sia bisogno di una buona dose di determinazione, razionalità e autostima per non traballare, nelle scelte che si fanno in questo senso.
Mi preme qui ribadire che quanto scrivo non si nutre di rigorosi dati scientifici bensì di un vissuto personale e, semmai, di testimonianze di altre donne. Ritengo tuttavia che la mia esperienza e quella delle altre madri costituiscano voci legittime e in quanto tali degne di essere ascoltate, anche e soprattutto dalle professioniste e dai professionisti della salute e da chi si occupa, in generale, della delicata fase della gravidanza e del puerperio. Queste persone, infatti, detengono un enorme potere in fatto di salute mentale materna.
Non sto affermando che tutti i sanitari e gli scienziati siano inaffidabili o deontologicamente incompetenti. Quello che sostengo, invece, è che ci sia un bisogno diffuso di una comunicazione sostanzialmente migliore, chiara e accessibile sulla “scienza della maternità”. Sin troppo spesso, infatti, le informazioni scientifiche sono presentate in modalità oscure per la platea di non addetti ai lavori. La qual cosa può naturalmente comportare confusione e frustrazione per le donne coinvolte, che possono rischiare di sentirsi sprovviste di preziose informazioni utili a prendere decisioni consapevoli sulla loro salute e su quella dei loro figli.
Un passo avanti si potrebbe compiere con una aumentata presenza di divulgatori scientifici che siano in grado di tradurre le conoscenze tecniche ostetriche in un linguaggio accessibile alla maggioranza delle fruitrici e dei fruitori. Sarebbe necessario, insomma, che prendessero piede divulgatori seri e super partes, capaci di presentare le informazioni in modo obiettivo, evitando di promuovere qualsiasi inclinazione o lectio in particolare. In qualità di professionisti della comunicazione scientifica, mi aspetterei poi dal loro profilo l’intelligenza di rispondere alle domande e alle preoccupazioni delle madri in modo sensibile e rispettoso.
Invece, come si diceva, molto spesso non è così. Le risposte sono confuse, parziali e frettolose, i modi sono, tante volte, sgarbati. Sui social si leggono testimonianze di ragazze che hanno trascorso una gravidanza tremenda per via della loro presunta debolezza e dell’incapacità di rispondere a tono a medici, anestesisti, infermiere e ostetriche. Se si vuole sopravvivere conservando un buon livello di sanità mentale si deve essere sì, forti, e si deve tener duro fino al parto – e oltre. Pazzesco.
Quando si pensa infine di aver superato la buia fase iniziale, di aver trovato una quadra e di poter portare la creatura all’asilo per tirare un sospiro di sollievo tornando più serenamente al lavoro, ecco che si incontrano educatrici integraliste (o fannullone?) pronte a ribadire che l’inserimento è piuttosto precoce e che il bambino o la bambina avrebbero bisogno di una dose maggiore di coccole e di assistenza – rimanendo più tempo a casa, naturalmente.
Come se tu, peraltro, non fossi intenzionata ad accudire o coccolare il sangue del tuo sangue e scegliessi sconsideratamente di abbandonare la bambina o il bambino in una struttura (cara come il fuoco, peraltro) senza averne realmente bisogno. In Italia, sì. Nella stessa Italia che caldeggia le nascite ma che al contempo le impedisce per tutto il lacunosissimo impianto assistenziale, nella stessa Italia che non pensa ad aumentare l’assai esiguo numero degli asili nido né tantomeno le quote dei sostegni.
Come afferma Alessandra Minello nel suo Non è un Paese per madri: «I dati dell’Ispettorato nazionale del lavoro riferiscono […] che tra le quasi 40mila dimissioni volontarie del 2017 disposte dai genitori con figli fino ai tre anni, il 73% è delle donne. Sono poche quelle che si sono dimesse per passare a un altro lavoro, la maggioranza attribuisce l’abbandono alle difficoltà nell’assistere il bambino, a costi elevati o assenza di nido, o alla difficoltà di conciliare lavoro e famiglia.
I padri che hanno lasciato il lavoro sono molti meno, e di questi la grande maggioranza lo ha fatto per passare ad altra azienda. […] a giocare un ruolo fondamentale sono i servizi per l’infanzia. Recenti dati Istat dicono che la copertura delle strutture per la prima infanzia nel nostro Paese è del 26%, per altro non omogenea tra le aree».
Minello stigmatizza poi, giustamente, una scarsa capillarità dei servizi e delle strutture per la primissima infanzia, di cui un quarto dei nuclei familiari non usufruisce a causa di un fattore economico, specie se si parla di nidi privati, e di orari incompatibili con le posizioni lavorative dei genitori. La qual cosa si ripercuote sulle madri, che troppo spesso si trovano vittime della child penalty (la penalizzazione delle donne con figli): «I salari lordi delle madri a quindici anni dalla nascita del figlio sono di 5.700 euro l’anno inferiori a quelli delle donne senza figli rispetto al periodo che precedeva la nascita e […] gran parte della penalità si gioca durante l’anno di nascita dei figli e il successivo».
Sì, questa è un’invettiva allo Stato, alla società, alle complicazioni che nessuno ti preannuncia. È un’invettiva al senso di colpa che viene instillato fin da subito, alimentato, radicato fino al momento in cui ci si trova a pentirsi di un qualunque gesto compiuto per la propria autodeterminazione, anche quello che appariva più inoffensivo.
Viene quasi da chiedersi se la naturale punizione per il “peccato originale” femminile, dalla costola sottratta ad Adamo in poi, sia anche determinata dall’ambizione di poter condurre serenamente una vita in compagnia della propria figlia senza dover maledire il giorno in cui la si è concepita.
Pare, però, di aver acquistato un biglietto di sola andata per l’annullamento del proprio bisogno e dei propri obiettivi, con somma approvazione degli astanti, sempre pronti a lastricare di assenso la via del sacrificio.
Tra l’altro, dalla gravidanza in poi, mi è capitato spesso di sentirmi rivolgere da professionisti sanitari o dell’infanzia l’appellativo di “mamma”. La qual cosa mi è risultata piuttosto sgradita perché fortemente spersonalizzante e deliberatamente noncurante del fatto che nella vita ho conseguito ben altri titoli, e che non mi esaurisco nella sola funzione di madre accudente.
Non è questa la sede per elencare le gioie che la maternità possa regalare, quelle sono infatti già oggetto di costante romanticizzazione e di riletture fatate. No, la maternità non è solo questo. Lo è, anche, di certo. Ma se vi ci si accosta con un briciolo di razionalità e di coscienziosità, si scopre che a tutti gli effetti c’è molto oltre, e spesso è in salita.
Se si acquista molto, se si acquista poco. Se si compie un investimento, se non lo si fa. Se ci si informa troppo, se non si è abbastanza informate/i: si è sempre criticate/i, nulla va bene. Se si è troppo giovani si è irresponsabili e dunque infantilizzate. Se si è “attempate” si è egoiste e dunque poco responsabili, anziane ma comunque immature.
È vietato farlo notare, però: se ci si lamenta eccessivamente, si lascia trapelare una inspiegabile non contentezza che mal si coniuga con la condizione materna, che dovrebbe regalare unicamente gioie e cedere tutto il tempo possibile, sconsideratamente, alla propria creatura.
C’è un atteggiamento che però, al bilancio finale, viene sempre ripagato: è quello di chi decide di non abbassarsi all’altrui livello e tace, non commenta, accoglie seraficamente osservazioni, consigli, indicazioni, racconti di esperienze, giudizi, eventualmente sorridendo ma non replicando.
È certo che questa possa essere una scelta di vita e di sopravvivenza discutibile sì, ma del tutto personale.
Come è probabilmente facile comprendere, chi scrive non è affatto di questo avviso, anzi: non si spiega come si possa soggiacere a queste dinamiche da sempre, accettando pacificamente e semmai gioiosamente la nausea, la stanchezza, il malessere, la responsabilità, ogni cosa venga insomma a ricadere sotto l’ampio cappello di “normalità materna”. Se è vero da un lato, infatti, che molte cose si dimenticano per lasciare spazio ad altre, generalmente di segno positivo, è anche corretto dire che ci sono situazioni, stati e parole che lasciano un segno indelebile.
Non potrei essere più felice della scelta che ho fatto, ma il punto è che sono grata e orgogliosa a me stessa di averla gestita da sola. Che non significa, si badi bene, ch’io intenda rifiutare l’apporto caloroso e accorato della comunità. Implica solo, invece, la pretesa della comprensione di una situazione piuttosto complicata nonché privata, che come tale va accolta da chi ne è al di fuori.
Una mamma senza nome
Micaela Grosso
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