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Silvia Perez Cruz al Blue Note di Tokio

In un fine settimana finalmente estivo, il Blue Note di Tokyo ha invitato la cantautrice e musicista catalana (suona il sassofono, la chitarra e il pianoforte) Silvia Pérez Cruz ad esibirsi di venerdì e di sabato quando la clientela affluisce maggiormente. Ma avrebbe meritato di avere ulteriori giornate a disposizione (Benny Golson, ad esempio, come i nomi di grido, ne ha avute cinque) per dimostrare la sua capacità di interprete canora e, magari, di chitarrista.

A trentacinque anni, dopo tanta gavetta, è in grado di calcare qualsiasi palcoscenico, di affrontare qualsiasi tipo di pubblico e di conquistarlo con il sorriso e la gestualità.

Ha proposto un repertorio incentrato prevalentemente sui titoli inseriti nell’ultimo CD, “Vestida de nit”, eseguendone sette su undici, in un set, il primo del venerdì, a cui ho assistito, di undici canzoni in totale. Azzeccata mi è parsa la scelta di farsi accompagnare da un Quintetto d’archi - come aveva fatto nell’unica data italiana il 25 marzo del recente “Bergamo Jazz”.

Ha iniziato con una canzone venezuelana, “Tonada de luna llena”, di Simon Diaz, facendo capire di amare molto la musica sudamericana. E’ un brano che ha avuto svariate interpretazioni. Ricordo quella di Caetano Veloso, anch’egli appassionato di canzoni sudamericane non brasiliane, forse felice di cantare in castigliano. Dal Venezuela al Perù, per ascoltare “Mechita”, un valzer di Manuel Raygada Ballesteros. Molto ben ritmata dagli archi, con la parte percussiva in cui spesso spicca il contrabbassista Miquel Angel Cordero, che colpisce con diletto il legno dello strumento. Ed ecco la canzone che dà il titolo all’ultimo album, “Vestida de nit”, composta musicalmente dal padre, Castor Perez, anche chitarrista, specializzato in “Habanera”, un tipo di canzone popolare, derivato da una danza cubana, spesso malinconica, come questa. La madre, invece, storica dell’arte, Gloria Cruz, è la responsabile del testo.

Seguono due canzoni tratte dalla colonna sonora del film “Cerca de tu casa”(2016) di Eduard Cortés, di cui Silvia è la compositrice, ma stupisce anche come attrice, dando prova di un felice eclettismo. In “Ai, Ai, Ai”, la prima, dopo il tema c’è un intenso solo del violoncellista Joan Antoni Pich, che ha curato tutti gli arrangiamenti del gruppo. Ma è la seconda ad emozionare, “No hay tanto pan”, un testo con parole crude, che riprende il brano con cui Silvia concluderà il set, “Gallo rojo, gallo negro”, per parlare del dramma degli sfratti e, in genere, della situazione economica in Spagna. Si conclude con un atto d’accusa e di indignazione : “E’indecente, è indecente, gente senza casa e case senza gente”, ripetuto ad libitum.

Simpatica “Manana”, la musica di Silvia, il testo di Ana Maria Noix. La cantante duetta vocalmente con il violinista, messicano, Carlos Montfort, il quale suona lo strumento come fosse un mandolino.

Silvia poi parte da sola con gorgheggi privi di parole per introdurre “Loca”, composta assieme al percussionista Ravid Goldschmidt. Da sottolineare un grintoso accompagnamento “strappato” del contrabbasso. Silvia esterna un modo di cantare evidenziando tutto ciò che vuole far affiorare delle proprie sensazioni e chi ascolta rimane inevitabilmente affascinato.

La seconda canzone in inglese del concerto, dopo “Ai, Ai, Ai” è “Hallelujah” di Leonard Cohen, con un accompagnamento spiritualmente cameristico.

E’ il momento del Brasile, un altro Paese molto amato da Silvia, che lì si è anche esibita. Ha scelto una canzone del Nordest, un Baiao che parla dell’aridità del “Sertao”, l’entroterra, composta nel 1947 da Luiz Gonzaga su un testo di Humberto Teixeira Cavalcanti. Perfino la colomba, l’ala bianca, “asa branca”, appunto, è costretta ad emigrare nelle grandi città del sud, portando con sé la nostalgia per la casa natale. Silvia ne ha fatto una canzone gioiosa, iniziata con il solo contrabbasso e i battiti delle mani. E’ un invito alla danza e a lasciarsi alle spalle la tristezza. Ed ecco che Silvia inserisce alcune citazioni del samba e della bossa nova tratte da “Nao deixa o samba morrer” (“non lasciare che il samba muoia, finisca”) e “A felicidade” (la tristezza non ha fine, la felicità sì”).

Segue “Estrella”, di Enrique Morente, con un inizio atemporale, gli archi e la voce che si muovono liberamente. Poi comincia la melodia, legata ad un testo di protesta e di speranza per un mondo senza fucili

Il finale, il previsto bis, è “Gallo rojo, gallo negro”. Tutti i musicisti si alzano in piedi, Mentre Silvia inizia a declamare, quasi un recitativo, il testo di Chicho Sanchez Ferlusio, che parla della guerra civile spagnola. Il gallo nero rappresenta il fascismo e chi tradisce, mentre il rosso la sinistra, che non si piega nemmeno quando sembra irrimediabilmente sconfitta. Silvia colpisce per una passionalità e una drammaticità tipici di molte interpreti spagnole, non solo del flamenco, e per una femminilità basata anche sull’abbigliamento e la cura della persona. Detto dei tre musicisti, meritano l’applauso anche le due musiciste : la violinista Elena Rey e la violista Anna Aldomà.

Foto: TAKUO SATO.

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