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S’è svegliato Barberro!

Alessandro Barbero ha scoperto la fatica misconosciuta degli insegnanti («l’insegnamento è il più frustrante dei mestieri moderni») e si è accorto che la religione del mercato ha prodotto una classe dirigente che ritiene «la cultura, la scuola, lo spirito critico […] pericoli da neutralizzare». 

 

 Scoperta l’acqua calda, ha consigliato ai docenti di «cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo. Non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, togliere il saluto a chi parla di meritocrazia, isolare nel disprezzo i dirigenti scolastici che si prestano alla distruzione della scuola e all’umiliazione degli insegnanti».

Che Barbero si sia svegliato fa piacere. Spiace che l’abbia fatto quando la scuola è moribonda e viene da chiedersi dov’era quando si lottava per tenerla in vita, a quanti colleghi accademici ha tolto il saluto e quanti presidi di facoltà e rettori ha isolato nel disprezzo. Dovrebbe averlo fatto, perché, tra noi vive ormai almeno una generazione di giovani – studenti e docenti – educata nelle scuole e nelle università di un Paese soffocato nei confini che vanno da Bassanini a Renzi. Una generazione, ma forse qualcosa in più, cui non solo la scuola, ma anche l’università hanno abilmente sottratto gli strumenti che formano il pensiero critico, la capacità di pensare con la propria testa e valutare liberamente, che in fondo è anche capacità di opporsi, di non rassegnarsi, non cedere all’egoismo, all’indifferenza e al qualunquismo.

Le università sono un irrinunciabile bene comune. Dovrebbero rendere possibile ciò che il giovane Gramsci chiese ai suoi coetanei, quando scrisse: «Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la nostra intelligenza». Le cose però non stanno così; Barbero dovrebbe saperlo e stare sulle barricate. Sfiducia degli studenti, immatricolazioni che calano e livelli di precarietà elevatissimi nell’area docente, sono gli effetti macroscopici delle politiche neoliberiste. L’Italia è l’ultimo paese europeo per percentuale di laureati, ma impone restrizioni al passaggio scuola superiore-Università; da noi le difficoltà economiche causano la rinunzia all’iscrizione e i numerosi abbandoni, ma la tassazione universitaria pubblica è più alta che altrove e abbiamo creato figure paradossali, quali gli «idonei non beneficiari», giovani ai quali, cioè, si riconosce il bisogno di un sostegno che però non avranno. Il diritto allo studio è un’astrazione. L’università, indebolita dalla penuria dei finanziamenti, isolata dal contesto sociale è inaccessibile ai meno abbienti. La sua decadenza è tra le cause principali del decadimento culturale, etico e politico della Repubblica.

I docenti delle scuole statali lottano contro l’Invalsi. Cosa fanno i docenti universitari contro l’Anvur e un sistema di valutazione che è controllo sulla cultura e galera per i ricercatori? Non è un tema da tre soldi e se non lo affrontiamo, non avremo mai una formazione critica generalizzata e di alto livello, sottratta agli interessi delle imprese e alle loro logiche di corto respiro.

La formazione non è un corpo a sé. Il suo principio-guida è nella Costituzione, quando, mettendo ordine e armonia tra uomo, lavoro e società, essa dice che quest’ultima è fondata sul lavoro, ma la sovranità non appartiene al mercato, bensì al popolo. Solo seguendo questa bussola, l’Università, per fare un esempio, può insegnare che le risorse della natura non costituiscono un patrimonio a disposizione delle ragioni del profitto, ma fanno parte di un ecosistema che ha inviolabili equilibri e che dal loro rispetto dipendono la nostra vita e quella di chi abiterà la terra dopo di noi. Ma l’Università questo non può più farlo, perché, gli equilibri ambientali sono subordinati agli interessi economici. Se le cose stanno così, si spiega il ruolo centrale svolto dall’Anvur: creare sacerdoti del pensiero unico e spegnere nella maggior parte degli studenti la capacità di organizzare resistenza.

L’Anvur è un’agenzia che fa della quantità della produzione scientifica la misura della qualità di testi che le commissioni non leggono. Per l’Anvur, un lavoro vale se l’editore conta molto – meglio se straniero – se c’è chi lo cita – gli anglosassoni sono i più quotati – se l’autore «produce» molto e partecipa a convegni internazionali. Grazie al criterio della «misurazione quantitativa», una commissione ha regalato una cattedra a una sorta di «speedy gonzales» che dalla laurea al concorso, in tredici anni, ha firmato otto saggi e «curato» nove libri; in quei tredici anni, moltiplicando il valore del tempo, come Cristo i pani e pesci, il giovane ha firmato due voci enciclopediche e trenta tra contributi in volume e articoli in rivista. A conti fatti, rigo più rigo meno, 200 pagine all’anno per tredici anni. Un impegno che non gli ha impedito di organizzare undici convegni, dire la sua in ventinove simposi e festival nazionali, dodici seminari e workshop internazionali, svolgere il ruolo di revisore per valutare «prodotti di ricerca» su riviste italiane ed estere, presentare quattro progetti di rilevanza nazionale e internazionale e, dulcis in fundo, trovare modo di partecipare alle attività di otto comitati scientifici. La commissione che non ha letto alcun libro dell’enfant prodige, non s’è posta la domanda cruciale: quanto tempo il candidato ha potuto dedicare alla ricerca?

A che serve questo meccanismo e quali effetti produce sull’insegnamento? Perché l’Anvur con la sua logica produttivistica impone alla ricerca vincoli temporali, se i progetti di qualità richiedono spesso anni di lavoro e tutti sanno che il valore reale della ricerca è la qualità, che si misura in base alla metodologia, all’originalità, alla capacità innovativa e alla ricchezza creativa? La risposta è semplice: l’Anvur sa che il legame forte tra «grandi editori» e «baroni» che ne dirigono le collane e scelgono i testi da pubblicare, impedisce ai ricercatori di occuparsi di alcuni indirizzi di ricerca. Se studio gli anarchici, per esempio, non pubblico i risultati delle mie ricerche e non vinco concorsi. Di conseguenza studierò altro e nessuno insegnerà più il significato e il valore storico dell’anarchia. Se voglio occuparmi di salute mentale e seguire la scuola di Basaglia e Piro, non otterrò cattedre con le mie ricerche, perché non troverò editori. O rinuncio, o batto la via farmacologica. La conseguenza è una salute mentale che torna a soluzioni repressive, narcotici e letti di contenzione e una università dai cui insegnamenti sparisce l’esperienza di psichiatria democratica e del disagio come male sociale.

Potremmo continuare, ma dovrebbe esser chiaro. Valutare per controllare significa imporre dall’esterno «obiettivi di valore» che ispirano periodiche verifiche della qualità dell’insegnamento; significa creare docenti che tutelano potere e mercato. Significa decidere cosa diranno i libri di testo. E’ questo meccanismo che rende apatico lo studente, impreparato e subordinato il docente, formato al pensiero dominante. E’ da qui che occorre partire, per capire e cambiare davvero. Se il pensiero è sotto stretto controllo, se i giovani che si danno alla carriera universitaria devono rinunciare a fare ricerca su argomenti sgraditi al potere, la minaccia non grava sugli studenti è direttamente rivolta contro la libertà della Repubblica

Che Barbero si sia svegliato fa piacere. Spiace che l’abbia fatto quando la scuola è moribonda e non si sia accorto che per l’università sono ormai pronti i funerali.

Foto di Walter Frehner da Pixabay 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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