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Prostituzione ad Amsterdam

Nel 2000 sono stati legalizzati anche i bordelli, dichiarati fuori legge nel 1911 per evitare lo sfruttamento o la coercizione delle lavoratrici Da qualche mese si discute di una nuova legge che renda obbligatorie le licenze e stringa i criteri per la regolarizzazione. Basterà?

In Olanda la prostituzione non è mai stata perseguibile penalmente. Nel 2000 è stato fatto un passo avanti e sono stati legalizzati anche i bordelli, dichiarati fuori legge nel 1911 per evitare lo sfruttamento o la coercizione delle lavoratrici. Da quel momento i lavoratori e le lavoratrici del sesso sono diventati “legali”. Lo spirito della legge è quello di adeguare la norma legislativa alla situazione esistente: i bordelli non hanno mai smesso di esistere ma venivano tollerati se non creavano problemi, che si trattasse di ordine pubblico o collusione con la criminalità. La legge olandese tutt’ora in vigore considera i lavoratori e le lavoratrici del sesso alla stregua di lavoratori normali, con regime di libero professionista o di impiegato. Questo significa che pagano le tasse e che, in caso di interruzione non volontaria di lavoro dipendente hanno diritto alla disoccupazione. Va detto che «la prostituzione è riconosciuta come professione, ma non viene considerata un lavoro appropriato. Ne consegue che gli uffici di collocamento non possono pubblicare offerte di lavoro per questo settore né agire come intermediari per posti di lavoro nell’industria del sesso», riporta il sito del Consolato dei Paesi Bassi in Italia.

Esistono poi tutta una serie di tutele sul lavoro piuttosto liberali: se si tratta di prostituzione su strada i lavoratori hanno accesso a zone di riposo e ristoro, disponibilità di preservativi, cure mediche gratuite ma non obbligatorie (non deve passare il messaggio che la prostituzione sia veicolo di malattie, nonostante quattro check up annui siano caldeggiati). La professione in locali, come per i coffee shop, si esercita sotto una licenza fornita su base comunale secondo lo spirito olandese di rispetto e di delega alle autorità locali. Secondo la legge attualmente in vigore non si può vietare una licenza per ragioni morali o etiche.

Secondo i dati governativi in Olanda ci sono 25 mila lavoratori del sesso, ripartiti in circa 6 mila zone lavorative. Si stima che circa due terzi siano immigrati: negli anni Settanta la maggior parte arrivava dalla Thailandia o dalla Filippine, negli anni Ottanta dall’America Latina. Dopo la caduta del muro di Berlino (e soprattuto con l’allargamento a Est dell’Ue) dall’Europa centrale e orientale. Questi dati, ricevuti dal Ministero degli Esteri, sono gli stessi che figuravano nel 2005. Il che fa pensare che, nonostante il tentativo di catalogare, quella legata alla prostituzione sia ancora una realtà fluida. Perché? «Effettivamente alcuni dicono che il 60-70% delle lavoratrici del sesso sono immigrate, ma come possiamo esserne sicuri? Non ci sono registrazioni. Molte lavoratrici olandesi lavorano negli appartamenti e non sono registrate. Io stessa ho una madre tedesca, che definizione usano di “migrante”? Sicuramente le vittime del traffico di esseri umani sono maggiormente migranti», dice Marianne Jonker dell’associazione Soaaids, che si occupa di prevenzione e servizi sanitari connessi ai lavoratori del sesso.

La maggior parte dei lavoratori del sesso, sempre secondo le statistiche del Ministero degli Esteri, esercita nei sex club o nei bordelli (45%), circa il 20% nelle vetrine, il 15% nei servizi escort, un altro 5% rispettivamente su strada e negli appartamenti privati. La legge olandese, considerata un modello, non è stata di così facile applicazione, né senza polemiche. «Questa legge ha legalizzato la parte commerciale e ha fatto delle prostitute delle lavoratrici. È il sistema amministrativo a riconoscere la prostituzione come un’attività commerciale. Ma non funziona: perché nel momento in cui crei un quadro economico-lavorativo di normalizzazione devi fare i conti con i preconcetti sociali, gli interessi territoriali e con una fase, che deve essere flessibile, di passaggio da un’industria che è sempre stata clandestina, a una situazione di legalità. I burocrati olandesi sono terribili perché sono molto legalisti», spiega Licia Brussa, sociologa dell’immigrazione e fondatrice di Tampep, Ong nata nel 1993 che si occupa di lavoratori/trici del sesso immigranti in Europa. «Il primo a fare confusione era l’ufficio delle imposte: come trovi i criteri fiscali per un lavoro che è flessibile e che che così deve restare? Le lavoratrici del sesso vogliono restare indipendenti, perché è l’autonomia che ti garantisce l’integrità fisica della decisione: non puoi fare marchette a comando e accettare tutti i clienti. Tutto questo entrava in conflitto con le leggi sul lavoro, che danno orari e impongono dipendenze». Per cui molte donne affittano una vetrina o lavoravano in un bordello perché c’era già la licenza. La legalizzazione, quindi, non è stata né chiara né omogenea. Certo, fare uscire dal “nero” un tale business d’affari non poteva avvenire nel giro di due anni: «Forse le persone più anziane si dicevano: “mi conviene, così posso avere qualche diritto sociale, posso usare i miei soldi in modo legale”. Però le donne giovani, che magari lavorano solo nei week end o per qualche mese non volevano entrare in un sistema legale», continua la Brussa.

 

E la vita non è così facile perché quello del sesso è un mercato molto variabile e con costi elevati per i lavoratori. Il prezzo per l’affitto di una vetrina varia dai 75 euro ai 150 al giorno (a seconda della zona): le prostitute ci lavorano a turni, mattina-pomeriggio, pomeriggio-notte. I costi delle prestazioni sono anche quelli molto variabili: «Dai 30 ai 50 euro per un rapporto completo in vetrina, dai 25 ai 50 su strada», mi dice la Jonker. «E più le ragazze sono sfruttate, più il prezzo si abbassa. E non ce la fai ad avere una media di 10-15 clienti al giorno. Inoltre, pensa agli altri costi: le vetrine “legali” hanno orari di chiusura, spesso alle due. E non si può dormire in vetrina. Per cui bisogna affittare una stanza nella zona. Pensa alla speculazione. E poi ci sono i costi “per il corpo”, diciamo…»., aggiunge Licia Brussa. Viste queste cifre i conti sono presto fatti, tenendo in considerazione il fatto che, se la persona lavora “legalmente” deve pagarci pure le tasse.

Sarah (il nome è inventato) ha 35 anni e ha iniziato a lavorare come prostituta quando ne aveva 20 per risolvere una brutta situazione finanziaria: «All’inizio ho lavorato in nero in un bordello. Appena il Governo ha permesso la legalizzazione l’ho fatto: pagavo il 17,5%. Non saprei stimare esattamente le entrate mensili: cercavo di non guadagnare meno di 500 euro al giorno, sennò mi dicevo che non valeva la pena». Ma molto è cambiato con l’era di Internet, la progressiva riduzione della prostituzione per volontà statale e la crisi: «Ora puoi guadagnare bene solo se il tuo target sono le persone ricche. Tutti gli altri tipi di prostituzione sono morti: oggi grazie ad un computer puoi trovare una donna per avere sesso molto facilmente e anche gratis».

Già da qualche anno esiste una volontà, se non esplicitamente di riduzione, diciamo di contenimento della prostituzione. «L’industria del sesso in Olanda era enorme. Negli ultimi quattro anni è stata ridotta del 50%. C’è stato un doppio meccanismo: politiche di riduzione, e una serie di casi in cui è stata scoperta una collusione tra criminalità organizzata e proprietari di immobili legati alla prostituzione», aggiunge la Brussa. Ed effettivamente basta osservare la politica della sola Amsterdam: Job Cohen, sindaco laburista dal 2001 al marzo 2010 – data in cui ha lasciato per presentarsi come candidato premier per il suo partito, il PvDa, alle elezioni di mercoledì scorso – nel 2006 ha negato la licenza a trenta bordelli ad Amsterdam, e la politica della città, dallo stesso periodo, ha puntato alla “riqualificazione” del quartiere rosso. Al grido di «vogliamo eliminare il crimine dal quartiere a luci rosse», Amsterdam ha investito sulla zona di De Wallen: pare che Charles Geerts, tra i più grandi proprietari di bordelli di Amsterdam, abbia venduto 17 proprietà per 25 milioni di euro, e che la metà sia andata alla municipalità. Lo scopo? Ridurre di un terzo le vetrine impiantando al loro posto gallerie d’arte o showroom. Alla fine del 2008 Cohen ha annunciato di voler chiudere la metà delle 400 vetrine della città per accertata collusione con la criminalità.

«Sono stati gli abitanti e i proprietari del quartiere che hanno protestato. Perché hanno perso soldi: devi considerare che non c’è un turista che non passi di lì. E, inoltre, questo 50% di riduzione è passato al clandestino», racconta la Brussa.«Le ragazze non hanno potuto dire nulla su questa politica della municipalità, sono dovute semplicemente partire. Ma se sei un fornaio, ad esempio, e ti chiedono di chiudere la tua attività, ti aiutano economicamente per spostare il tuo business da un’altra parte. Per le ragazze di De Wallen nulla. Ma noi paghiamo le tasse. È giusto?», mi dice Sarah. A questo si è aggiunta una politica di riduzione della prostituzione all’aperto, cosa che ha spostato tutte le attività al chiuso, con annessa «l’impossibilità di monitorare la situazione per le associazioni», specifica la Brussa.

 

In Europa, nel 2006, sono state segnalate 9000 vittime del traffico di esseri umani, il che corrisponde a trenta volte meno rispetto alle cifre stimate. Va detto che un rapporto dell’Unodc (United Nation on Drogs and Crimes) del 2006 menziona l’Olanda tra le principali destinazioni di questo traffico insieme a Thailandia, Giappone, Israele, Belgio, Germania, Italia, Turchia e Stati Uniti. Ciononostante nessun rapporto cita una correlazione diretta tra la legge in vigore attualmente in Olanda e il traffico di esseri umani. «Il Governo ha deciso che la legalizzazione del 2000 non ha fatto nulla per i sexworker perché, nel frattempo, il numero delle vittime del traffico di esseri umani non è diminuito», spiega Marienne Jonker, che definisce questa nuova legge «repressiva». Lo scopo esplicito di questa proposta è la lotta alla tratta di esseri umani e la “riqualificazione” dei lavoratori del sesso. «La politica di lotta contro la tratta ha una sua logica: la lotta contro le vittime di un delitto. Che non ha niente a che fare con la prostituzione libera, riconosciuta come un’attività commerciale. Già concettualmente non bisogna confondere le due cose: fino agli anni Novanta la legge olandese era un esempio di queste due politiche chiare», mi dice Licia Brussa. Secondo la studiosa questa distinzione è più diluita nella nuova legge. Il ddl proposto l’11 novembre 2009 cambia, e di parecchio, la prospettiva: licenze obbligatorie anche per le libere professioniste legata al comune di attività, un registro nazionale per i servizi di escort, registrazione obbligatorie delle prostitute, criminalizzazione per il cliente che frequenta una persona non registrata o un locale senza licenza, aumento dell’età minima a 21 anni e, soprattutto e particolarmente significativa, l’entrata in vigore della “zero option” la possibilità, cioè, di un comune di vietare una licenza senza motivo (e quindi per motivo morale). A questo si aggiungono maggiori possibilità di controllo da parte delle autorità municipali per verificare situazioni di abuso.

Per coloro che lavorano con l’industria del sesso la legge non è affatto la benvenuta: la tessera che il lavoratore deve possedere viene assegnata dopo un colloquio con un team di esperti che deve valutare che la persona non sia sotto costrizione: «Figurati se chi fa questo “screening” si può rendere conto se queste persone siano sfruttate. Noi abbiamo bisogno di mesi e di un lavoro continuo perché la donna ti dica che il magnaccia le chiede soldi, ad esempio. Inoltre, non ci sono altre professioni vieni esaminata un funzionario pubblico o vieni registrata», continua la Brussa. E poi c’è il problema della privacy: «Con questo tesserino non c’è la garanzia di protezione dei dati: abbiamo calcolato che almeno mille funzionari che vi avranno accesso».

Sarah, che accanto all’attività di prostituta ha sempre continuato a fare «lavori normali» o studiare, per «continuare ad evolvere e non impazzire», insiste molto sull’importanza della privacy: «Molte ragazze lavorano in segreto, nemmeno i loro mariti lo sanno (ho amiche che volevano essere finanziariamente indipendenti proprio per uscire dal matrimonio). Per cui potevi dichiararti come manicure o donna delle pulizie. La registrazione come prostituta è ridicola perché i magnaccia, gli ex-fidanzati o chiunque altro può accedere facilmente a te, alla tua attività e ai tuoi recapiti. E quando tutti sanno quello che fai è difficile cambiare vita: anche in Olanda, chi vuole dare lavoro a una donna di strada?».

 

Foto: Alejandro Cuervo/Flickr

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