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Professionalità docente oggi

Nel corso degli anni è notevolmente cambiata l'immagine dell'insegnante, che, da trasmettitore di sapere, ha assunto il carattere dell'esperto di progettazione e comunicazione, dovendo gestire un’offerta formativa per gli utenti e negoziare una molteplicità di rapporti interni ed esterni alla scuola. 

di Grazia Loperfido

In tutto questo sistema reticolare, il lavoro dell'insegnante ha assunto più libertà di scelte, ma anche un carattere di maggiore responsabilità. Nell’attuale realtà il ruolo fondamentale degli insegnanti nella formazione delle nuove generazioni viene ribadito a più livelli, sia dai singoli Paesi che a livello comunitario. I cambiamenti e le innovazioni legati all’attualità spaziano in ogni ambito del quotidiano e implicano l’introduzione di nuove modalità di lavoro per gli insegnanti. Sfide come l’avvento delle nuove tecnologie per la comunicazione, la realtà multiculturale, l’accesso all’istruzione di una pluralità di soggetti, hanno creato una serie di situazioni complesse che l’insegnante si trova ad affrontare nella vita in classe. Emerge con forza la questione dell’adeguatezza del suo profilo di competenze e, di conseguenza, di una sua formazione di qualità in una prospettiva di life long learning.

Nelle società post-moderne è necessario un ripensamento dell’educazione, e quindi della figura del docente nella scuola e del proprio ruolo, che non può più continuare a ispirarsi a modelli tradizionali, ma richiede nuovi paradigmi interpretativi: ci troviamo di fronte una realtà sempre più complessa, frammentata, una “società dell’incertezza”, “liquida” secondo Zygmunt Bauman, come definita, fin dal titolo, anche in una delle sue più recenti pubblicazioni . A questo, si aggiunge una delegittimazione degli insegnanti che è conseguenza delle politiche che negli ultimi anni hanno relegato la scuola a un ruolo marginale, impoverendola. Stiamo vivendo una crisi senza precedenti del discorso educativo: tra alunni e docenti, tra famiglie e docenti, si è aperta una frattura che sembra insanabile. La profonda crisi di credibilità dei docenti si accompagna a una sempre più marcata distanza tra i genitori e gli insegnanti, che, da coprotagonisti dello stesso progetto educativo, sembrano siano diventati avversari. Lo stesso calo demografico produce figli nati da genitori sempre più vecchi, figli sempre più solitari, figli cui si chiede la perfezione per il sé genitoriale, non per loro. Questo figlio deve stare sempre bene, per esempio deve sempre divertirsi. A questa mitologia si accompagna la scuola sempre più quantitativa (come nel caso delle “competenze” barattate con centinaia e centinaia di schede-fotocopie). Questo figlio non deve mai farsi male, mai soffrire. Su questa premessa socio-educativa la medicina della grande malattia della scuola agisce con una seduzione avvincente. “Certifichiamo” di tutto. Pensiamo, per ultimo, al rischio di deriva pedagogica con l’introduzione dei BES. E così la “certificazione”, sempre e comunque, toglie qualsiasi senso di colpa, responsabilità. Meglio un po’ “ammalati” che “cattivi “. Meglio una tecnica che una pedagogia vera. 

Sono in crisi profonda i luoghi di comunità, quelli dove “insieme se ne esce”.

La solitudine e la perdita di reti comunitarie fa da pendant alla selezione darwiniana e al senso del futuro come minaccia. Da qui va in crisi anche la scuola come luogo che accoglie tutti, che comprende tutti, che sa travasare l’un l’altro doti e difetti.

Insomma l’apprendimento come capitale sociale di più menti che lavorano insieme pur con diverse performances, viene sostituito da prove INVALSI, giudizi, olimpiadi disciplinari, selezioni per l’università. Stiamo quindi perdendo un perno del nostro immaginario pedagogico, quello del gruppo dei pari che cresce per merito reciproco.

E nella competizione, tutti gli strumenti sono buoni per non restare indietro, meglio se individuali, specializzati. Così si confezionano pedagogie quantitative senza sapore, magari alunni saputelli ma non saggi.

La figura degli insegnanti non è mai stata così in basso come in questa epoca, tra insulti perché lavativi, a ignoranti perché non moderni, né carismatici perché poveri. 

Lo stesso accade ai genitori, che non sentono più dentro di sé l’autorevolezza adulta, ma l’insicurezza di essere poco bravi come genitori. Da qui una disistima dell’educazione come forza trasformativa delle singole persone e delle generazioni dopo di noi.

Da qui il sopravvento della tecnica sulla didattica, dei metodi sulla progettazione flessibile. A questi bistrattati insegnanti si danno sempre più alunni, alunni sempre più complicati, si riducono le risorse. Dunque questi insegnanti sono spesso costretti, loro malgrado, a vedere nello “specialista “una risposta consolatoria, nell’insegnante in più un po’ di respiro, nell’esperto colui che ti cava le castagne dal fuoco con ricette “precotte”. Ci vorrebbe forse più deontologia nei ricercatori (spesso il ricercatore è la sua ricerca), ma la questione principale è che la persona è una, non è fatta di parti, se tocchi un punto tocchi tutto. La persona esiste perché ha relazioni.

Si soffre a vedere la crisi degli insegnanti piegati a ricevere “ricette tecniche” da esterni, senza la forza e lo spazio per una propria ricerca professionale autonoma, solo questa utile a rimettere insieme l’unità tra persona e comunità, che è la vera anima dell’educazione. Se si sbaglia sui meriti dei migliori dispiace, ma se si sbaglia sulle aree deboli della società, pretendendo di fare buona inclusione, l’errore vale doppio.

Tra i tanti avversari odierni per una buona scuola si nota soprattutto la “medicina educativa” dagli “effetti collaterali indesiderati “. Essa sta separando gli umani in sintomi ed utilizza la “cura” non come “aver cura di”, ma come tecnica terapeutica, isolando la persona nel suo sintomo.

La salute individualistica come “non malattia” è intesa come sinonimo di benessere e felicità. Diventa parola d’ordine di un alienante approccio alla vita, in cui ogni dolore è male, fino a diventare una vera e propria angoscia esistenziale.

Crisi globale, allora, in una società della globalizzazione dei disvalori?

Una crisi di fiducia, traducendola in altri termini, che affonda le sue radici nel terreno fragile del nostro presente incerto, in cui la persona è ormai posta in secondo piano rispetto al ruolo, e che si traduce in una crisi di autorità degli insegnanti, incapaci oggi di essere influenti e riconosciuti come “educatori” dagli stessi allievi. Docenti sempre più stanchi, demotivati, rinunciatari. Smarriti. Docenti che hanno smesso di credere nel loro lavoro e nella funzione stessa dell’educazione, e hanno rinunciato a proseguire sulla strada della formazione, lasciando che la loro mente, insieme al loro cuore, si sterilizzi in attesa del suono della campanella. Eppure “l’educazione non è finita”. Interrogarsi sul senso dell’educazione è oggi necessario, per poterla rigenerare, riabilitare, anche reinventare, sulla base di nuove idee, nuove proposte che tengano conto dei cambiamenti che ci sono stati e di quelli in corso. Ma per essere buoni maestri bisogna prima di tutto desiderare di esserlo! Sono necessarie conoscenze, competenze e saperi professionali, ma, soprattutto, occorre essere disposti a mettersi in gioco con sentimento. Essere insegnanti, soprattutto implica l’assunzione di una responsabilità che si traduce nella formula “Mi curo di...”, una cura che non ha a che fare solo con la formazione e con il processo di apprendimento, ma, soprattutto, attiene alla crescita della persona umana. La Scuola è ancora ciò che salvaguarda l’umano, l’incontro, le relazioni, gli scambi, le amicizie, le scoperte intellettuali. In qualità di insegnante, avverto l’esigenza di un cambiamento, di un rinnovamento che possa portare a recuperare la motivazione, il senso della propria professione, il desiderio di insegnare che si traduce in passione, cura, attenzione. Quel desiderio che dà significato all’azione dell’insegnante, dal momento che spinge chi insegna a reinventarsi ogni giorno, a de-costruirsi e a ri-progettarsi continuamente non solo come docente, ma innanzitutto come persona. Amo il mio lavoro e spesso uso "operaia al servizio dei bambini" come metafora della passione esistenziale che metto nel mestiere che faccio, dello stipendio che percepisco e del contraddittorio riconoscimento collettivo che investe la professione di maestra di scuola primaria. Una scuola della libertà e della fantasia in cui quell’operaia possa, nonostante tutto, ancora credere in un servizio educativo pubblico di qualità!

Foto di Gerd Altmann da Pixabay 

 

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