Presadiretta: la scatola nera
La tecnologia dentro gli smartphone, i social media, il metaverso, sono un’opportunità oppure un problema per la nostra società, per i ragazzi che davanti al piccolo schermo passano tante ore?
Per rispondere a questa domanda Predadiretta è andata a visitare la sede milanese di Facebook o Meta e conoscere da vicino questo metaverso: è la nuova versione di internet che consentirà di fare cose oggi impossibili. Sono tanti i colossi dell’informatica che si sono lanciate nel metaverso: fornire una esperienza immersiva dentro un mondo virtuale. Dagli anni novanta siamo passati ai contenuti testuali, ai contenuti audio e video fino ad oggi, ai contenuti tridimensionali, a cui una moltitudine di persone possono accedere tramite i loro avatar, i nostri cloni.
Si potrà viaggiare, scoprire una città nuova, giocare partite come se si fosse dentro al campo. C’è poi il mondo dell’educazione che potrebbe consentire agli studenti di sentirsi dentro un foro romano e sentir parlare i consoli. Visitare un impianto remoto senza muoversi dall’ufficio.
Un chirurgo potrebbe operare un tuo avatar e sperimentare prima di lui l’operazione.
Visitare una casa che si vuole acquistare, entrandoci dentro, senza spostarsi.
Tramite metaverso si può visitare l’ospedale di Emergency in Uganda: questa esperienza consente alle persone di vedere coi loro occhi cosa fanno veramente i medici di Emergency sul territorio.
Il metaverso funziona attraverso le nostre emozioni: lo raccontano al Marketing Lab del Politecnico, si misurano le dilatazioni delle pupille, per esempio, per capire come reagiamo di fronte ad una immagine. C’è un mercato da 50 miliardi di dollari spesi nello scorso anno per il solo settore dei giochi: i ragazzi fanno esperienze, giocano dentro questi mondi virtuali, come quello di Fortnite, dove spendono i loro pochi soldi, che sono però soldi veri.
Nel virtuale ci sono gli store di marchi veri, come Gucci: nel 2030 si stima che il 10% del mercato del lusso girerà nel mondo virtuale. Come i vestiti digitali da far indossare ai propri avatar che sono stati presentati a Milano al Luxury lab.
Le aziende si stanno proteggendo dalla contraffazione anche nel mondo virtuale: non solo i marchi di moda, ma anche industrie dell’arredamento, dell’alimentazione.
Tutto bello? No, come racconta il giornalista Staglianò, che in diversi saggi ha spiegato come queste nuove tecnologie hanno allargato le disuguaglianze. Il metaverso è un confinamento perenne dentro il nostro visore: il grosso delle nostre relazioni saranno mediate dal digitale, un mondo dentro cui passeremo tanto del nostro tempo.
Questa tecnologia rischia di tagliarci fuori dal mondo reale ma, soprattutto, tutte queste ore davanti allo schermo, fa male al cervello.
Cervelli digitali
Tulsa è la seconda città dell’Oklahoma, da cui parte la route 66: era la capitale del petrolio, ma oggi qui si sta studiano il nostro cervello, un lavoro fatto da un gruppo di ricerca chiamato ABCD study che sta cercando di capire come il gioco con lo smartphone influisca sul cervello dei ragazzi.
700 ragazzi sono monitorati da 4 anni: misurano l’attività celebrale, mentre giocano, tracciando i flussi sanguigni nel cervello. Sono ragazzi che passano ore sui social, anche 5 nel fine settimana: la ricerca sta rilevando che tutte queste ore stanno causando un disallineamento nel cervello, l’area da cui dipendono le valutazioni su te stesso e sugli altri risulta meno sviluppata, che potrebbero portare a problemi di ansia e rabbia.
L’attività sui media e sugli schermi cambia il modo in cui il cervello si sviluppa: si passa molto più tempo davanti lo schermo che non socializzando con altri coetanei.
Ma stiamo studiando solo ora quali saranno gli effetti, anni fa non esistevano Tik Tok o Instagram: ci aspettiamo che il peggio potrebbe ancora arrivare – racconta un medico del gruppo ABCD Study.
Ci sono poi storie molto più tragiche, come quella di Molly Russel: dentro la scatola nera dei social sono state risucchiate le vite di molti ragazzi, come quella di Molly.
Si è tolta la vita poco prima di compiere 15 anni, viveva a Londra, frequentava il college, una ragazzina come tante: si è uccisa per autodepressione, malattia causata anche per i contenuti che aveva visto online su diverse piattaforme. Le compagnie di internet sono state accusate di suicidio, in particolare Pinterest, che aveva inviato a Molly diversi pin su contenuti che parlavano di ansia.
Poi altri post e video su Instagram: alla famiglia hanno dato solo i video su cui aveva messo il like, poesie che romanticizzavano il suicidio, immagini di parlavano di violenza su se stessi.
Un flusso continuo di contenuti che hanno aumentato la sua depressione, con commenti del tipo “sei grassa”, “sei brutta”.
Molti di questi post pericolosi non sono stati rimossi nemmeno dopo la morte della ragazzina: le piattaforme non sono responsabili dei contenuti caricati dalle persone, ma gli algoritmi non fanno filtri, anzi questo software di raccomandazione cerca i contenuti migliori per le persone, in modo che attraggano sempre più le persone, per aumentare il profitto e gli utili.
Lo ha spiegato il professor Naughton di Cambridge: questa tecnologia di Facebook è perversa, nonostante lo scandalo le compagnie non hanno fatto niente per cambiare le cose.
Francis Haugen è la whistleblower di Facebook che ha denunciato le perversioni della piattaforma: nel 2019 era stata reclutata da Facebook per monitorare i contenuti falsi, ma prima di andarsene si era portata via migliaia di pagine dove emergeva che la società Meta era consapevole dei danno che causava ai giovani. Sono documenti di una ricerca dove si spiega come Facebook cercasse proprio gli adolescenti, perché hanno un valore monetario, sono gli utenti del futuro da coinvolgere prima che diventino adulti.
Ci sono slide dove si mette nero su bianco che Instagram può creare danni ai ragazzi, così vulnerabili sulla loro salute, per colpa degli algoritmi pensati proprio per stimolare la loro emotività: Facebook ha respinto tutte le accuse, dicendo che l’azienda spende 5 ml di dollari per la sicurezza. Ma dopo le parole di Haugen, dopo il Metagate, molte famiglie hanno fatto causa.
Come la famiglia Spence, i genitori di Alexis: a dodici anni ha sofferto di una grave depressione e anoressia, era finita in un buco nero perché l’algoritmo continuava a mandarle messaggi del tipo “non mangiare”, con post che la aiutavano a nascondere ai genitori il suo utilizzo (come per es usare altri account).
Ad una ragazzina di 11 anni si continuava a proporre contenuti con ragazze emaciate, che parlavano dei loro disturbi alimentari: “il mondo deve sapere i danni che queste piattaforme stanno causando ai nostri figli” raccontano i genitori di Alexis.
Il colpevole sei tu, dice l’industria dei giganti di internet, lo stesso meccanismo delle aziende del tabacco: nessuno vuole assumersi le sue responsabilità, nessuno vuole ammettere che si vuole mettere il profitto davanti a tutto.
Cosa risponde oggi Meta?
Rimuovono i contenuti che incitano all’autolesionismo, hanno sviluppato un controllo genitoriale: l’età per entrare su Instagram o Facebook è ancora a 13 anni? È l’età decisa dal legislatore, risponde la responsabile delle relazioni esterne.
Si muove la politica, si muove la società civile, si muovono i ricercatori: il motore di raccomandazione della piattaforma di turno è qualcosa che uccide, un giorno dopo l’altro, le persone più fragili, bombardate ogni giorno da contenuti pericolosi.
La dittatura di Tik Tok
In cinque anni Tik Tok è cresciuta diventando l’app più scaricata al mondo, grazie anche alla spinta della madre patria cinese, che ha investito molto su di essa.
La pandemia ha fatto esplodere questa app: non devi fare nulla per questo algoritmo, devi solo scrollare e vedere i video proposti dall’algoritmo, senza fare sforzi, senza abbandonare la piattaforma.
L’occhio di Tik Tok vi segue, conosce molto di più di noi di quanto possiamo pensare: l’algoritmo analizza i video che stiamo guardando e attraverso l’intelligenza artificiale, intuisce quale deve essere il prossimo video. Non solo, i soggetti sgradevoli dal punto di vista dell’aspetto venivano bannati: Tik Tok è la scatola nera per eccellenza, raccoglie i nostri dati biometrici, i dati dei nostri volti grazie ai filtri che si possono usare per modificare i nostri selfie.
Tik Tok sta raccogliendo le impronte facciali di milioni di utenti senza dirlo pubblicamente: questa piattaforma potrebbe comprendere che tu sia una persona instabile e proporti altri video di persone instabili facendoti pensare che tu abbia veramente un problema. Un problema di anoressia, di depressione, la volontà di farti del male.
Tik Tok sa che se in difficoltà e continua a mandarti contenuti aggressivi, perché questo è l’unico modo per tenerti collegato, per non farti staccare: l’unico obiettivo è la monetizzazione del disagio.
Ragazzi che poi si devono curare in strutture per la cura dei disturbi dell’alimentazione: sono bambini di anche dieci anni, che hanno alle spalle anni di frequentazione di social e che oggi postano immagini dei loro tagli, del loro alimentarsi col sondino.
Laura Dalla Ragione – medico dell’ASL 1 dell’Umbra, parla di persone schiacciate nel presente, che postano queste foto come una sfida agli altri in un gioco perverso.
Stanno aumentando i casi di bambini con disturbi alimentari, con problemi di autolesionismo: siccome stiamo parlando di problemi della salute mentale nei giovani nessuno se ne preoccupa, ma in realtà siamo di fronte ad una vera pandemia.
Esistono diversi studi che mettono in relazione l’uso dei social con i problemi emotivi e mentali dei ragazzi: non possiamo aspettare che si arrivi ad uno studio definitivo sul punto, dobbiamo muoversi adesso, ma purtroppo manca la volontà politica.
Avamposto scuola.
Nella scuola Savena di Bologna le insegnanti un giorno hanno scoperto che due ragazzine avevano lo stesso segno sotto l’occhio, la cicatrice francese. Un marchio per entrare in un cerchio, qualcosa che è sempre esistono, ma i social hanno reso questo fenomeno più veloce, senza alcuna intermediazione. È stata la scuola ad accorgersi di questo, non i genitori.
Lorenza Rossi è referente del benessere a scuola di un istituto a Bologna, racconta di un’ansia da prestazione “e ovviamente la ritroviamo anche in ambito scolastico, in una verifica, in un voto. Noi troviamo anche tanto sonno mancato a causa dell’uso dello smartphone, loro non lo spengono mai, soprattutto i maschi che fanno uso di videogiochi, giocano con persona da qualunque parte della crosta terrestre, è chiaro che hanno anche un fuso orario completamente diverso. Il che vuol dire che uno dei due è sveglio mentre dovrebbe dormire. Noi facciamo corsi di gioco d’azzardo ‘in previsione di’, perché essendo loro abituati al videogioco di altro genere, gli esperti dicono che saranno più pronti per il gioco d’azzardo”.
E’ un fenomeno subdolo: “è un fenomeno subdolo che parte in una età in cui loro sono piccoli, sono strumenti emotivi, non sono strumenti tecnologici: alla prima offesa sulla chat, emotivamente non la gestiscono.”
Cosa può fare la scuola?
“Lavorare prima di tutto sulla schermatura emotiva dei bambini: laboratori, attività che li aiutino a stare insieme capendo le loro proprie emozioni, riconoscendole dando loro anche un nome, perché alle emozioni noi dobbiamo saper dare un nome e a sentire in modo empatico quelle degli altri.”
Il ministero dell’istruzione ha vietato l’uso del cellulare in classe: così a Faenza ad inizio lezione li spengono e li lasciano in una sacca con le tasche, una per ognuno di loro.
Stare sconnessi anche per sole poche ore è un problema per gli adolescenti: così gli insegnanti devono aiutarli, come si fa con le persone dipendenti dal fumo.
All’istituto superiore Meroni di Lissone le lezioni iniziano coi cani: con loro si dimenticano dei social, della bolla protetta, dell’ansia, dell’incapacità di reagire. I cani hanno fatto il miracolo, hanno fatto aprire questi ragazzi e gli hanno ridato un sorriso.
Ragazzi che sono nati digitali ma che non hanno la patente digitale: l’obiettivo è stare bene, non creare dolore – racconta una docente.
Le lezioni di media education sono comunemente fatte in altri paesi come la Finlandia: in Italia manca una legge ad hoc per la formazione digitale e mancano anche i fondi per il digitale nelle scuole.
Ma serve l’aiuto anche delle famiglie: non bisognerebbe dare il cellulare già alle elementari, anche sapendo che si rischia l’isolamento. Importante è anche l’esempio che danno i genitori, che magari mangiano guardando lo smartphone.
In Piemonte, in provincia di Verbania, le scuole hanno creato la patente di smartphone: in questa partita nell’uso intelligente dei device concorrono tutti, le scuole, gli insegnanti, le famiglie e le asl.
Sarebbe bello se il ministero dell’istruzione mettesse a fattor comune questa esperienza in tutto il paese.
L’Europa ha emesso un digital act, ma non è sufficiente per contrastare questo problema: le piattaforme social hanno tanti lobbisti a Bruxelles tanto da influenzare i politici, hanno soldi da spendere per mettere annunci e fare pubblicità per condizionare le scelte.
La commissione europea ha scelto di non adottare una strategia non conservativa, con nuovi divieti sui contenuti potenzialmente dannosi: saranno più sicuri, ma non sicuri del tutto.
Fino a quel momento, meglio essere consapevoli di questa emergenza nazionale che coinvolge le famiglie, le scuole, la sanità (mancano le strutture per curare questi disagi mentali) e soprattutto i giovani.
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