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Presadiretta, da Gaza all’Ucraina fino al Libano: terra occupata

Le 30mila vittime civili palestinesi a Gaza, una prigione a cielo aperto. I 134 ostaggi israeliani ancora in mano di Hamas e la battaglia dei parenti contro l’azione del presidente Netanyahu. La violenza dei coloni in Cisgiordania, che si sta prendendo la terra dei coloni e il fallimento degli accordi di Oslo. In Libano si vive nel terrore che il conflitto si allarghi, mentre stanno vivendo una crisi economica. Infine l’Ucraina, dove i soldati al fronte dopo due anni di guerra sono stremati: le mogli scendono in strada per chiedere che tornino a casa. 

Israele in ostaggio

Questi gli argomenti della puntata di Presadiretta di questa sera: un lungo racconto che comincia con la battaglia di Avichai Brodutch, sua moglie e i tre figli sono nelle mani di Hamas. Il 14 ottobre inizia la sua battaglia silenziosa e disperata per farli tornare a casa: la sua protesta si è allargata ad altri familiari, chiedono le dimissioni del primo ministro del loro paese.

Temono che il governo non stia dando priorità al ritorno a casa degli ostaggi: i familiari hanno incontrato il presidente Herzog, sconfortati per non aver ricevuto rassicurazioni.
Avichai è diventato simbolo della protesta, scontrandosi anche con un parlamentare del partito Likud: Hamas ha chiesto il rilascio di tutti i detenuti palestinesi, per rilasciare gli ostaggi, ma il governo israeliano ha scelto di non negoziare, portando avanti la battaglia a Gaza.

I familiari sono stati aiutati da un ex astronauta israeliano, che ha pagato i loro viaggi nel mondo, dove portano il loro messaggio di pace.

Il governo Netanyahu è concentrato nella distruzione di Gaza – racconta in televisione Avichai: dopo sei settimane anche la loro protesta ha portato ad un accordo di cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri,5 soldatesse in cambio di quindici palestinesi nelle carceri israeliani, questo l’ultima ipotesi di accordo. Ma la guerra andrà avanti ancora.

Diplomazia parallela

Attorno alle famiglie degli ostaggi c’è l’attenzione di una buona parte della società del loro paese: anche loro sono entrati nei negoziati, con una forma di diplomazia parallela, assieme ad ex ambasciatori come Alon Diel che stanno supportando le famiglie che non si sono fidate della strategia ufficiale del governo.

Si deve parlare anche coi leader di Hamas, anche se lo odiamo, perché questo accordo va fatto con Hamas – racconta a Presadiretta Alon Diel: la morte di Rabin ha depotenziato gli accordi per i due stati, facendo crescere i movimenti estremisti.

I figli di Avichai sono tornati a casa: la vittoria per gli israeliani arriverà quando torneranno tutti a casa – racconta un altro familiare che aggiunge – servirà un accordo con Hamas.

Sono stati liberati 105 ostaggi fino ad oggi: anche l’ipotesi del nuovo scambio, le cinque soldatesse, non fermerà la guerra, l’ultimo baluardo di Hamas è Rafa, dove però vivono tanti civili, a ridosso della frontiera con l’Egitto.

Rafa è la destinazione finale della popolazione palestinese, che ha trasformato la città in una enorme tendopoli, senza servizi igienici e acqua, col terrore per le persone che stanno qui che ogni giorno sia l’ultimo.

Rafa doveva essere un rifugio sicuro, ma ora per Israele è l’ultimo bastione di Hamas: l’esercito entrerà anche qui e sarà un massacro per la popolazione.

Non sono risparmiati nemmeno ospedali, anche quello di Medici senza Frontiere: da Rafa arrivano a singhiozzo i camion con gli aiuti umanitari per i civili, ma non bastano per le esigenze minime della popolazione.

Ogni giorno estremisti israeliani si mobilitano per non far entrare cibo e aiuti a Rafa, ma sono anche assaltati dai disperati della striscia alla ricerca di qualcosa da mangiare.

La situazione a Rafa e in tutta la striscia è raccontata solo dai giornalisti palestinesi (molti dei quali uccisi per la guerra), altri giornalisti non sono ammessi: le loro testimonianze sono crude, come quelle dei bambini operati senza anestesia, eppure non fanno il giro del mondo, troppo scomode forse.

Solo chi ha i soldi, 5000 dollari, può scappare da Gaza: la guerra è un affare per tanti sciacalli che ne approfittano. Chi vuole andarsene non ha nemmeno un corridoio umanitario per sfuggire dalle bombe.

Terra occupata

In Cisgiordania si è aperto un altro conflitto: qui doveva sorgere lo stato palestinese, ma i loro territori oggi sono attaccati dai coloni israeliani.

Presadiretta ha raccolto la testimonianza di un ex soldato: case prese dai palestinesi e confiscate, una occupazione militare di territori che dovrebbero essere dei palestinesi. Le colonie sono insediate in modo strategico per separare i villaggi, si costruiscono nuovi avamposti, che domani diventano nuove colonie.

Gli attacchi dei coloni costringono i residenti palestinesi a scappare: un esproprio avvenuto con violenza e legalizzato dalla polizia e dall’esercito.

Ai pastori è impedito il ritorno alle loro case: dall’inizio del 2023 sono più di duemila gli attacchi, secondo una ricerca fatta da questa ONG solo nell’ultimo anno circa 110 chilometri quadrati della Cisgiordania sono stati annessi dai coloni ai loro avamposti illegali: negli ultimi cinque anni hanno di fatto preso il controllo del dieci per cento dell’area C.

La politica del governo israeliano li agevola nel costruire, la politica è quella di svuotare la terra dai palestinesi e di annetterla, di rubare questa terra.

In Cisgiordania si vive sotto un regime militare – racconta un ragazzo palestinese che vive nell’area C – tutti i permessi di costruzione sono negati, i coloni attaccano le persone, li minacciano.

LE colonie sono illegali, ma secondo Israele non c’è illegalità perché i palestinesi non sono cittadini di uno stato, quei territori che Israele vuole annettersi non sono considerati parte di un altro stato sovrano.

La fine dei palestinesi sarà quella degli indiani, confinati in tante piccole riserve isolate tra di loro?

L’esercito israeliano ha il potere di bloccare le strade, anche senza veri pericoli, bloccando la circolazione delle persone.

Tutto questo non fa che crescere la tensione contro gli israeliani: a Jenin si trova il campo profughi dei palestinesi che nel 1948 hanno dovuto abbandonare le loro terre, sui muri delle case sono presenti i segni dei proiettili perché ogni due giorni ci sono raid dell’esercito.

In uno di questi raid sono morti due bambini, di 13 e 15 anni, sparati dai soldati su una jeep. La loro colpa? Stavano lanciando degli oggetti sui soldati..

Le violenze si susseguono anche a Gerusalemme: dal 7 ottobre ai palestinesi è proibito l’accesso alla moschea, si sono susseguiti degli scontri tra l’esercito e dei civili.

Perché sono falliti gli accordi di Oslo?
Il 13 settembre del 1993 alla Casa Bianca Rabin e Arafat si stringono la mano in presenza del presidente Clinton: gli israeliani riconoscono l’OLP e il suo diritto a rappresentare i palestinesi.

Gli accordi sono nati ad Oslo: Israele non poteva negoziare direttamente con l’OLP, così si scelse un palazzo ad Oslo, racconta l’ex diplomatico Egeland, dove i negoziatori si incontrarono sotto le spoglie di un programma di ricerca.

L’ex viceministro Beilin racconta delle trattative, del riconoscimento reciproco, di un accordo definitivo che doveva arrivare dopo cinque anni.

“Basta sangue e lacrime” sono le parole di Rabin: ma dopo l’accordo scescero in campo gli estremisti, i religiosi ortodossi e la destra estrema.

L’attuale ministro della Difesa era in piazza in quei giorni, fu lui il responsabile del danneggiamento dell’auto di Rabin e a guidare la protesta c’era proprio Netanyahu.

Dopo le manifestazioni in piazza si arrivò ad un attacco ad una moschea, cui seguì la risposta di Hamas con attacchi suicidi in Israele contro i civili, Hamas si era sempre opposta agli accordi con Israele.

Il 4 novembre 1995 in una manifestazione a Tel Aviv, a difesa degli accordi, un estremista ortodosso uccide Rabin: fu un grave contraccolpo per il processo di pace, che si interruppe.

Alle elezioni del 1996 il paese svolta a destra con l’arrivo di Netanyahu: il suo governo abbandonò gli accordi di Oslo, che non erano concepiti come permanenti. Da quegli anni l’espansione in Cisgiordania si è espansa, i coloni da 130mila sono passati a 800 mila, la vita dei palestinesi è peggiorata, tutti i loro diritti sono stati ristretti.

Le colonie si espandono, si usa l’arma della sicurezza di Israele per giustificare questa occupazione di territori in Cisgiordania: ma tutto questo non porterà ad alcuna sicurezza – racconta la relatrice dell’Onu Elena Basile che aggiunge che la fine del conflitto arriverà solo quando cesserà la fine dell’occupazione e la nascita di uno stato palestinese.

Ma oggi Netanyahu ha bloccato tutto, spiegando che in questo momento non c’è spazio per uno stato palestinese, a peggiorare le cose c’è il rischio che il conflitto si allarghi ad altri paesi, come in Libano.

La crisi in Libano

In Libano c’è una crisi economica e sociale che dura da cinque anni: anche qui c’è una guerra, di fatto, che costringe le persone a vivere una situazione di povertà, non potendo curarsi, non potendo mandare i propri figli a scuola.

Sono saliti i prezzi delle materie prime, il turismo è scomparso, le attività commerciali si stanno chiudendo una dopo l’altra. Anche ad Hamra Street, il cuore di Beirut.

La colpa è la paura che la guerra arrivi fino a qui: la paura colpisce tutti, cristiani e musulmani, per questo tutti i politici cercano di gettare acqua sul fuoco, anche in opposizione ai desideri di Hezbollah.

Ci sono quartiere nelle mani di Hezbollah, che controlla le strade, controlla la popolazione dando pacchi di aiuti alle famiglie.

La guerra è arrivata fin qui coi missili caduti in Libano che hanno ucciso leader di Hamas: nonostante questo Hezbollah ha scelto di non andare allo scontro diretto con Israele.

Anche qui, in Libano, la vita dei palestinesi è difficile, nei campi profughi come quello di Sabra e Chatila (dove avvenne la strage per mano delle falangi cristiano maronite protette dall’esercito israeliano), nei palazzi dove le persone sono ammassate. Non hanno documenti per andare all’estero, non riescono a lavorare, non possono curarsi perché non hanno soldi per pagarle.

Dipendono per tutto dagli aiuti dell’agenzia delle Nazioni Unite, UNRWA: è la povertà a spingere tanti nelle mani dei terroristi.

Guerra chiama guerra: gli scontri tra l’esercito israeliano e Hezbollah sono in crescita, continuano gli attacchi dei Houthi nel mar Rosso e i negoziati fanno fatica ad ottenere dei risultati.

Ucraina due anni di trincea

Iacona è stato in Ucraina nello scorso gennaio per incontrare le mogli dei soldati al fronte: tutte aspettano notizie dai loro cari, sperano in un loro ritorno a casa dopo due anni di battaglie.

Tutte sperano di cacciar via gli invasori, ma i soldati scomparsi, dispersi, devono tornare a casa, molti sono ancora prigionieri nelle mani dei russi.

Anastasia è una ragazza che si occupa di moda: con la sua pagina Facebook sta raccogliendo soldi per aiutare i soldati, come kit notturni e perfino armi o droni. Ai soldati mancano le armi per vincere la guerra come sperano in tanti.

L’equipaggiamento per i soldati, i droni, arrivano dagli aiuti dei civili, ma il problema è che mancano i soldati: la gente ha capito che l’interesse dell’Europa in questa guerra è calato, le armi che servirebbe non arrivano più come si aspettano.

Ci sono le critiche delle madri e delle mogli dei soldati, logorati da due anni due guerra: i soldati stanchi devono essere rimpiazzati, per non perdere la guerra.

È una critica a come viene portata avanti la guerra: servono forze fresche dai civili oggi a casa per portare avanti questa guerra di trincea.

Iacona è andato ad intervistare la moglie di uno dei tanti soldati al fronte, Anastasia, il marito si chiama Vitaly ed è al fronte da due anni: “in televisione si dice solo che tutto va bene, non parlano del fatto che l’esercito è esausto, che i soldati devono essere sostituiti, che ci sono così tanti morti e feriti, non dicono che ci sono brigate dove l’organico è dimezzato, invece bisogna raccontare al paese che l’esercito è stremato e che è il dovere di tutti arruolarsi per difendere l’Ucraina, questo bisogna dire in televisione. La propaganda non serve a nessuno: io non ho paura di nessuno, l’unica paura che ho è di perdere mio marito, tutto il resto non ha alcuna importanza, che venga pure a casa la polizia o i servizi segreti, io continuerò a difendere i nostri uomini che ora stanno combattendo per noi.”

Gli arruolamenti di massa dei primi giorni non ci sono più: servono più armi all’Ucraina, chiede l’ex presidente Poroshenko, anche per convincere gli stessi ucraini ad andare a combattere, col rischio che l’offensiva di Putin metta in crisi ancora di più l’esercito.

Da una parte la richiesta di armi dall’altra la crisi della diplomazia, in Ucraina e anche in Israele, le dichiarazioni dei leader politici stessi, che non fanno altro che incendiare ancora di più la situazione.

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