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Presadiretta, Coronavirus in Lombardia, Emilia e Veneto: come sono andate le cose

Un viaggio nelle tre regioni più colpite dal coronavirus, Veneto, Emilia e Lombardia: un viaggio, quello di Iacona, che gli ha fatto comprendere la sfida che abbiamo di fronte, se vogliamo sconfiggere il virus.
La guerra non è finita: i contagiati di ieri sera erano inferiori, ma nel fine settimana ci sono stati meno tamponi, ma i contagi sono legati a cattivi comportamenti. Come successo in Sardegna, nei locali della moda come il Billionaire di Briatore: in questo locale si sono infettati anche diversi lavoratori, oltre le persone che hanno frequentato la discoteca che è diventata il cluster più grande in Sardegna. Fino a luglio la regione era Covid free ma ad agosto qui si sono riversati tanti turisti che, nei locali, non hanno rispettato le misure di sicurezza – lo racconta un testimone che ha lavorato in quei locali: un insulto per i sardi, per chi lavora nella sanità.
 
Altro cluster a Treviso, presso lo stabilimento dell'Aia: un terzo dei dipendenti sono positivi al coronavirus e molti sono asintomatici. E la fabbrica è ancora aperta: ma chi ci lavora non sembra essere preoccupato, a Vazzola, perché bisogna andare a lavorare.
 
La decisione di non chiudere l'azienda è stata presa da comune, asl e sindacati: una scelta che non convince alcuni sindacati perché, dicono, molti lavoratori hanno paura di perdere il lavoro, perché stagionali o immigrati. L'azienda, racconta uno di loro, ha fatto lavorare le persone anche nei giorni dopo il tampone, prima di avere il risultato: lo stesso è successo alle persone poi risultate positive. I tamponi fatti sono di quelli “rapidi”, danno dei risultati in quindici minuti, questo per consentire all'azienda di continuare la produzione: tutta l'ASL fa 2500 tamponi ogni giorni, “è l'unico mezzo per arginare il cluster” racconta il dottor Grigoli.
 
Mai più eroi
 
Elena Borghi è la figlia del dottor Giuseppe Borghi, medico di Casalpusterlengo: il padre è morto di Covid, uno dei tanti medici morti, 176 tra uomini e donne contagiati sul lavoro.
Borghi è stato il primo medico a morire per Covid: era uno dei medici che non si fermava a dare la ricetta al paziente.
 
La provincia di Lodi ha avuto un incremento di decessi del 300% rispetto all'anno passato: Iacona ha incontrato il dottor Polini, che racconta di essersi sentito come un soldato in prima linea. Senza forniture, lasciati allo sbando nei primi giorni dell'epidemia: dal governo non è arrivato niente – racconta.
 
A Treviolo lavorava il dottor Giambattista Perego: anche lui è un medico morto per Covid, anche lui aveva pochi strumenti di sicurezza ma nonostante questo ha continuato a lavorare.
Anche quando è stato estubato, ha continuato a chiedere dei pazienti: ora la moglie vuole giustizia, “più nessuno deve trovarsi in questo stato di emergenza”.
Fontana ha detto “rifarei le stesse cose” - ha chiesto Iacona. Questa dichiarazione l'ha ferita?
Si molto, anche perché qui la situazione era di emergenza ed era un emergenza annunciata e questa è la cosa imperdonabile”.
 
Quando è crollata la prima linea dei medici, perché ammalati, le persone si sono riversate negli ospedali. E così il virus ha colpito il personale sanitario nei reparti e nei pronti soccorsi.
Lo ha raccontato una infermiera che ha preferito rimanere anonima: i dispositivi erano contati, non c'erano percorsi per i pazienti, non c'erano protocolli precisi da seguire.
 
Non in tutti gli ospedali c'era i reparti per le terapie intensive, così medici e infermieri hanno dovuto scegliere chi salvare e chi no, chi mandare dalla macchina che aiuta a respirare e a chi dare cure palliative.
Questo è successo in Lombardia, la regione dove tutto è iniziato e che ha pagato il prezzo più alto.
 
La politica deve guardare in faccia quello che è successo, per vincere la sfida che il virus ci ha lanciato: basta morti a casa, basta morti in solitudine.
Le risorse umane e materiale erano insufficienti per gestire l'emergenza nelle prime settimane: così molti pazienti sono stati lasciati a casa, perché mancavano i posti negli ospedali.
Lo ha denunciato per primo il sindaco di Bergamo Gori: persone che hanno chiamato il pronto soccorso ma nessuno è andato a prenderli, così sono morte.
 
Quell'onda del virus era ben oltre le nostre possibilità – racconta il sindaco al giornalista: i tamponi in Lombardia a marzo e aprile sono stati fatti solo a coloro che finivano in ospedale, così nemmeno sappiamo quanti sono i morti reali per Covid.
L'Istat certifica che a Bergamo sono morte più di seimila persone: così tante che per portare via le salme era dovuto intervenire l'esercito.
 
Sempre a Bergamo, Riccardo Iacona ha intervistato Paola Pedrini, medico a Trescore: la dottoressa ha raccontato al giornalista come pazienti, anche con parametri critici, sono stati curati a casa per l'impossibilità di ricoverare tutti. A marzo è successo qualcosa che non era mai accaduto, da quando esiste il sistema sanitario, cioè che nessuno prende in carico un paziente bisognoso di cure.
Come medico sul territorio, la dottoressa ha riportato la condizione di stress con cui ha dovuto lavorare, senza protezioni a sufficienza col rischio di contagiare altre persone o addirittura i familiari.
Avevamo l'angoscia nel non poter trovare un ricovero per pazienti che ne avevano bisogno .. non mi sarei mai immaginato di dover supplicare per un ricovero. Di fronte ad una persona giovane, dire se arriva l'ambulanza devi insistere per un ricovero.”
 
Per le persone rimaste a casa c'è stato poi il problema di recuperare le bombole d'ossigeno: gli ospedali erano pieni e rifiutavano i ricoveri e così le persone morivano a casa. Senza nemmeno poter ricevere cure palliative, morfina o altro. Muori in modo terribile.
 
A Casalpusterlengo, Iacona ha incontrato un altro medico, Michele Polini: “è stato il dramma peggiore, vedere i nostri pazienti , doverli seguire a casa impotenti, perché se si chiama il 112 non ti risponde, perché sovraccarico. Ci si mette due giorni per avere una risposta ma in quei due giorni il paziente mi chiama quattro volte al giorno, mio marito sta male ha la febbre cosa devo fare?”.
Il medico ha spiegato come a volte il 112 quando arrivava faceva la sua analisi e suggeriva di chiamare il medico curante, perché non c'erano posti letto per il ricovero.
Io mi son sentito dire: dottore parte la lettiga, lei ha dieci minuti decida, uno dei due rimane a casa, perché ne possiamo portare via uno solo.”
Chi salvi allora? Quello di trent'anni o quello di cinquant'anni con figli?
Mi son sentito dire da una famiglia, dottore ricoveri mio figlio, a me mi lasci pure morire a casa perché tanto ..”
 
La pagina FB Noi denunceremo
 
Su questa pagina FB sono raccolte le denunce dei familiari delle vittime: le foto di migliaia di persone, i ricordi, l'affetto di chi ricorda e la rabbia di chi rimane.
Non era mai successo – commenta Iacona – che si interrompessero questi riti della cura e della morte “che consentono di accompagnare al meglio chi ci ha dato la vita, i nostri fratelli, sorelle, gli amici più cari, perché possano sapere quanto li abbiamo amati e non essere soli nel momento della sofferenza e del dolore”.
Le foto dei nonni, dei genitori, dei parenti morti, 35mila secondo le cifre ufficiali, più altre diecimila non conteggiate, ci riportano l'enormità di quanto successo.
Questo ci dice l'enormità di quanto è successo.
Le persone che hanno aperto queste pagine hanno oggi un grande bisogno di verità e giustizia, da qui le denunce presentate alla procura di Bergamo: perché vogliono che le loro storie non finiscano nel silenzio.
 
Non vogliono colpire gli operatori, ma la malagestione dell'emergenza: “vogliamo che quanto accaduto non succeda più, per colpa dell'abbandono della medicina sul territorio, si è portato il virus negli ospedali, l'errore più grave”, racconta Luca Fusco.
 
Alcuni medici dell'ospedale di Bergamo, il papa Giovanni XXII, ci aveva visto lungo: avevano denunciato (in una lettera pubblica) la situazione di stress in cui dovevano lavorare, il sovraffollamento, la mancanza di mascherine e tute. Quello che stava succedendo era un disastro umanitario – racconta Mirco Nacoti.
Ci preoccupava lo sforzo e l'enfasi sulla terapia intensiva: si doveva prevenire prima, bloccando i contagi prima sul territorio.
E' stato sbagliare ospedalizzare tutti, affollare i pronti soccorsi, senza protezioni: tutto questo è stato esplosivo.
 
Il 4 aprile 2020 i vertici dell'ordine dei medici in Lombardia hanno denunciato le carenze nella gestione dell'emergenza: l'abbandono del territorio, l'ospedalizzazione dei malati, un piano pandemico regionale che è rimasto fermo al 2006.
Gli ispettori della regione avevano fatto un audit sul piano, nel 2009: ma di fronte alle criticità e alle irregolarità nessuno nessuno aveva fatto nulla.
Il piano pandemico era un'arma spuntata e inutile: la regione si è limitata a fare una circolare in cui si chiedeva di monitorare le persone di ritorno dalla Cina.
 
Iacona ha intervistato l'assessore Gallera: “nessuno ci aveva preparato, il governo non ci aveva preparato” è stata la risposta dell'assessore alle domande di Iacona sul crollo dei medici nei primi giorni.
In merito al piano pandemico, al rapporto che è mancato tra ATS e medici di base, Gallera rimanda tutto al piano nazionale, alle mascherine mandate in Cina (ma in base ad accordi già stipulati) e non ai medici.
In Lombardia, rispetto al Veneto ci sono stati più focolai e anche questo ha peggiorato le cose.
La delibera sulle RSA? Noi avevamo chiesto di metterli in padiglioni separati, nessuno è stato infettato per causa di questa delibera.
“Noi abbiamo fatto delle scelte, per mettere un tubo in bocca al paziente e farlo respirare, in velocità” ha concluso Gallera.
 
Come sono andate le cose in Veneto.
 
In Veneto hanno preso decisioni operative diverse: all'ospedale di Schiavonia, dove è stato ricoverato il paziente uno, hanno fatto il primo tampone al paziente che era arrivato in ospedale con una polmonite.
Si sono resi conto, dal tampone, che il virus circolava da tempo: si è deciso così di mettere in sicurezza l'ospedale, chiudendolo (con un cordone di carabinieri) anche con i visitatori, per 24 ore.
Nei giorni successivi alla messa in sicurezza dell'ospedale, si input del presidente Zaia, comincia la tamponatura degli abitanti di Vo' Euganeo: 3000 persone tamponate nel giro di sette giorni – racconta la direttrice dell'ULSS6.
Ad inizio di marzo la popolazione di questo paese viene sottoposta ad una seconda tamponatura, con risultati straordinari: se a fine febbraio erano risultati positivi al test il 3% della popolazione, con una tasso di contaminazione che avrebbe portato in pochi giorni la percentuale al 60%, a marzo la % è crollata allo 0,25%, con una manciata di positivi rimasti in regime di isolamento. Il fattore R0 era stato abbattuto del 98%: l'epidemia era stata soffocata sul nascere.
 
Quello di Vo' Euganeo è diventato un caso scuola in tutto il mondo: il 42,5% dei positivi di questo paese erano asintomatici, dunque le situazioni più subdole da identificare.
Il dottor Crisanti ha riportato i dati di Vo' Euganeo al presidente Zaia ovvero dell'importanza di identificare questi pazienti senza sintomi: il modello è stato poi replicato anche negli altri cluster scoperti.
E’ molto semplice. Se c’è un cluster si chiude tutto, si fa il tampone a tutti, si ritorna dopo 9 giorni, si rifà il tampone a tutti. Si isolano i casi positivi e il cluster è chiuso. A Vo’ non c’è stato più nessun caso di trasmissione endogena. La ricetta ce l’abbiamo, sta sotto gli occhi di tutti, bisogna che ce ne rendiamo conto. Ad ottobre e novembre se abbiamo un nuovo cluster cosa facciamo, tutte le stupidaggini fatte fino ad adesso? Oppure aggrediamo quel cluster come si deve?”
 
Quali sono le stupidaggini fatte - ha chiesto Iacona
Discutere dell'utilità dei tamponi, sul fatto che i tamponi debbano essere fatti ai sintomatici, .. non abbiamo ancora una ricetta standardizzata nel caso in cui ad ottobre o novembre c'abbiamo un cluster importante. Che facciamo?”
 
Crisanti si è organizzato per tempo per fare il maggior numero di tamponi, lavorando nel suo laboratorio: qui dentro si era sganciato dai fornitori che forniscono dei kit già preparati, i reagenti se li erano preparati da soli.
Non è vero, come dice Gallera, che in Veneto sono stati più fortunati: anche in questa regione ci sono stati più cluster, ma semplicemente li hanno tracciati e identificati per tempo.
Ecco perché in questa regione non si è mai superato l'indice del 35% di ospedalizzazione in terapia intensiva.
 
La differenza tra Lombardia e Veneto l'ha fatta la medicina sul territorio: i dipartimenti di prevenzione, i laboratori per le analisi, l'assistenza domiciliare che raggiunge più persone (c'è un bel report sul sito di Scienza in rete), si sono messe in quarantena più persone.
La mortalità, di medici e pazienti, in Veneto è stata molto meno bassa.
E, infine, il piano pandemico regionale, è stato rivisto e aggiornato e non è rimasto nel cassetto.
 
Francesca Russo, dirigente nel settore sanitario veneto (dove si occupa di prevenzione) lo ha spiegato anche in trasmissione: il piano pandemico è stato anche testato, per capire quanto fosse efficace.
Lo stesso modello adottato nei centri estivi verrà poi applicato nelle scuole, dove saranno usati i tamponi rapidi, che danno un risultato in quindici minuti, per evitare le chiusure delle classi.
 
Lo studio sul coronavirus di febbraio
 
Il governo aveva sul tavolo un report, a febbraio, in cui si diceva che il virus sarebbe arrivato in Italia e che correvamo il rischio di saturare i posti negli ospedali.
 
Il ministro Speranza ha risposto, del contenuto di quel report, arrivato il 12 febbraio come anche della nave inviata con le mascherine in Cina: un atto di solidarietà, difeso dal ministro.
Cosa possiamo fare ora: incrementare i tamponi, continuare la ricerca sul vaccino, serve la sanità sul territorio, serve scaricare Immuni.
 
La sfida della scuola è la più importante: il lockdown sarà finito quando tutte le scuole saranno riaperte.
Va ricostruito un rapporto organico tra scuola e sanità: non dobbiamo lasciare soli i nostri presidi – spiega il ministro.
Serve il supporto di tutti, delle ATS, dei medici e delle persone.
 
Dobbiamo chiudere la stagione dei tagli – ha continuato il ministro – per garantire l'articolo 32 della Costituzione. Dobbiamo poi costruire un modello di sanità di prossimità, sul territorio: vorremo arrivare al 10% come spesa nazionale per un servizio che ti arriva fino in casa.
 
Da dove prendere i soldi per questa rivoluzione copernicana? Anche dal MES, secondo Speranza, non solo dal bilancio dello Stato o dal recovery fund.
 
L'età dei contagiati si sta abbassando: significa che i giovani che si infettano possono poi entrare in contatto coi genitori, con le persone anziane. Il ministro ha rivolto un appello ai giovani, chiedendo anche a loro di tenere alto il livello di attenzione.
 
Cosa è successo in Emilia Romagna
 
Piacenza è stata la prima città colpita dal virus: come in Lombardia, l'ospedale della città si è riempito, tanto che l'esercito ha dovuto costruire un nuovo ospedale da campo.
In questa regione hanno richiamato i medici in pensione, i medici e tutto il personale sanitario hanno subito un forte stress, come in Lombardia.
 
A Bologna, Iacona è andato all'ospedale Sant'Orsola, il più grande come posti letto, la più grande azienda ospedaliera pubblica. Durante l'emergenza sanitaria è diventato il punto di riferimento per i malati Covid della città.
Pierluigi Viale, direttore del reparto malattie infettive racconta quei giorni: “il 3 marzo dedicavamo tutti i letti del reparto malattie infettive al Covid. Il 15 marzo avevamo 400 letti Covid attivati, giorno dopo giorno aprivamo nuovi reparti”.
 
Per tutto il mese di marzo al Sant'Orsola si sono costruite dal nulla nuove terapie intensive, poi a fine marzo la regione Emilia Romagna ha impresso una svolta: 
“ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti, ma tutta sta gente che arriva con questi sintomi pesantissimi, aveva alle spalle giorni di malattia, otto o nove giorni di febbre a casa. Ma perché dobbiamo lasciar morire a casa, andiamo fuori dall'ospedale e andiamo a prenderli a casa, vediamo se prendendoli prima, riusciamo ad assisterli meglio, facendo la ventilazione non invasiva prima. Li prendiamo quando hai una piccola alterazione della funzione respiratoria e ti mettiamo subito sotto tiro.Da quando abbiamo cominciato ad uscire dall'ospedale, superando il paradigma sto ad aspettarti coi letti in terapia intensiva pronti, al vengo a prenderti a casa, oppure vieni qua che ti valuto prima che cominci ad avere la sensazione di affanno, abbiamo visto sparire i pazienti che arrivavano respirando con le punte dei polmoni. Li abbiamo visti sparire ai primi di aprile. La sensazione è che questo andarli a prendere precocemente, abbia cambiato il nostro ingaggio con la malattia.”
 
Hanno schierato le truppe fuori dagli ospedali, in ambulatori dotati di poche apparecchiature: la ricetta è stata vincente, perché ha liberato i pronti soccorsi.
Le persone finite in quarantena non sono state abbandonate, ma sono state seguite giorno per giorno, dal personale delle ASL, che ha usato i dati degli infetti per le analisi epidemiologiche.
La regione ha anche rafforzato i laboratori per i test con i tamponi.
 
Come il Veneto, anche la regione Emilia Romagna aveva una struttura di prevenzione sul territorio funzionante, su cui nel periodo dell'emergenza hanno solo dovuto investire, come personale.
Come la casa della Salute a Imola, da cui sono partite le persone (con tutti i DPI corretti) per andare a controllare i pazienti nelle loro case, gli USCA.
Le persone non dovevano sentirsi abbandonate.
 
In studio, il presidente Bonaccini, ha difeso il sistema pubblico in Emilia Romagna come anche la scelta di aggredire il virus, la pratica dell'early catching: come il ministro, anche Bonaccini preferirebbe che il governo scegliesse di prendere i soldi del MES.
 
L'ultimo servizio è stato l'intervista a Giuseppe Remuzzi, Direttore dell'Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri IRCCS che ha puntato il dito contro il sistema dei DRG (Raggruppamenti omogenei di diagnosi): 
“la Lombardia per anni si è orientata attorno al DRG, è poi è diventato un sistema per fare del fatturato.La struttura privata chiama il traumatologo di grande fama e gli dice tu mi devi tante protesi dell'anca, o tumori al polmone, arriva l'amministratore delegato della struttura e gli dice, quest'anno ne hai operati 300, l'anno prossimo 350 .. ma dove li trovo io 350? Significa farli venire dalle altre regioni. Vuol dire che abbiamo creato questa industria per creare protesi dell'anca, chirurgia dell'obesità, fissazione delle vertebre, cose che non sono neanche necessarie ..”
 
Questo modus operandi però coinvolge anche le strutture ospedaliere pubbliche, la ratio economica di un ospedale pubblica si basa essa stessa sui DRG – ha chiesto Iacona al medico: 
“è stata questa terribile contaminazione, il DRG è diventato il sistema attraverso cui si fanno le scelte negli ospedali e questo ha messo in crisi di fatto anche l'ospedale pubblico. Il DRG va tolto, bisogna che l'ospedale pubblico sia retribuito in base ai risultati e alle esigenze. Servono 10mila mastectomie nella provincia di Milano? Benissimo, noi facciamo le diecimila mastectomie e paghiamo l'ospedale. Ne può fare solo 7000, allora 3000 le diamo al privato, con cui ci convenzioniamo per quello per cui il pubblico è carente, non per fare quello che vuole. Questo richiede un grande piano sanitario e una visione globale. Deve essere una cosa che parte dalla prevenzione, che è la cosa fondamentale. Tutti questi soldi che sono stati messi sulla sanità privata avrebbero dovuto essere messi sul territorio. La missione è tutelare la salute dei cittadini e il diritto alla salute non alla cura. Noi non ci possiamo permettere che muoia nemmeno una persona per niente, devono morire quelli che è giusto che muoiano, perché programmati per morire ad una certa età, ma non dobbiamo fare come è successo adesso che le persone morivano per niente, gli anziani. La salute non è soltanto cosa che ha che fare con ospedali, farmaci, è qualcosa che ha molto più a che fare col benessere. E quindi torniamo alla prevenzione.”
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