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Patrick Zaki, arriva a un anno e mezzo la detenzione dello studente di Bologna

Patrick Zaki, lo studente di Bologna originario del Cairo – ormai questa è la definizione che lo rappresenta meglio, invece che “lo studente egiziano dell’Università di Bologna” – si trova ormai da un anno e mezzo in detenzione preventiva, senza processo e senza possibilità di difendersi dalle accuse mossegli l’8 febbraio 2020: minaccia alla sicurezza nazionale, incitamento a manifestazione illegale, sovversione, diffusione di notizie false e propaganda per il terrorismo.

 

Accuse rivolte in tantissimi altri casi simili, con le quali le autorità giudiziarie egiziane intendono ridurre al silenzio la ricerca, l’attivismo, la promozione dei diritti umani e naturalmente la denuncia delle violazioni.

Intorno a Patrick, sin dalla notizia della sua sparizione forzata iniziata il 7 febbraio dello scorso anno appena atterrato al Cairo da Bologna, è nata una straordinaria campagna che, dai luoghi accademici e istituzionali del capoluogo emiliano-romagnolo e dai suoi portici si è ampliata a tutta l’Italia e persino all’estero.

Una campagna che ha mosso la solidarietà di decine di comuni italiani che hanno conferito a Patrick la cittadinanza onoraria, e dei due rami del parlamento che ad aprile e a luglio di quest’anno hanno chiesto al governo di agire concretamente, attraverso lo strumento della cittadinanza italiana e dell’apertura di un negoziato ai sensi della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura.

La risposta del governo italiano non c’è stata. Ci si è limitati, nella lunga serie di udienze di convalida della detenzione preventiva, ad attivare il monitoraggio dell’Unione europea sui procedimenti penali negli stati terzi, in modo coerente con la timida strategia basata su tre parole d’ordine: dialogo, cautela, silenzio.

Dialogo, evidentemente acritico, con l’Egitto immaginando che in questo modo si otterrà prima o poi “il favore” di rimandare a Bologna Patrick; cautela, evitando di assumere iniziative politiche che potrebbero turbare l’alleato; silenzio, come invito all’opinione pubblica a non compromettere le azioni diplomatiche in corso. Quali, non è dato saperlo.

Per Patrick, chiuso nella sua cella della prigione di Tora, questo anno e mezzo è stato un tempo lentissimo, pieno di angoscia, di dolore fisico, di sofferenza mentale, segnato da un lungo periodo di isolamento dal mondo esterno a causa della pandemia e poi da rare visite dei familiari, ai quali ha lasciato sempre messaggi di ringraziamento per la comunità italiana che lotta per lui, alternati a segnali di resistenza e di avvilimento.

In questo periodo di “chiuso per ferie”, non dimentichiamo Patrick!

 

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