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Partiamo dal cibo che compriamo per cambiare il clima

Le parole di Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sul clima hanno fatto da apripista: «Non c’è qualità alimentare senza rispetto dell’ambiente». E l’associazione ha lanciato “Menu for Change”, campagna internazionale sul rapporto tra cambiamento climatico e cibo.

di Il Cambiamento

L’associazione Slow Food ha lanciato la campagna “Menu for Change”, che evidenzia la relazione tra produzione alimentare e clima che cambia. L’annuncio è stato dato dal fondatore di Slow Food, Carlo Petrini: «A chi si domanda perché un’associazione che si occupa di cultura alimentare dovrebbe promuovere una campagna sulle questioni del cambiamento climatico, posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro».

Tutti noi, ha continuato Petrini, «siamo responsabili di quello che mangiamo e anche di quello che coltiviamo: «Il più grande terreno da coltivare è la lotta allo spreco. Tutte le istituzioni internazionali ripetono che siccome nel 2050 saremo 9 miliardi e mezzo “bisogna produrre più cibo”, ma già oggi abbiamo cibo per 12 miliardi di viventi. Significa che un’ampia parte di quello che viene raccolto, trasformato e venduto finisce nella pattumiera».

C’è un intero paradigma agricolo e agroalimentare da cambiare, mentre la produzione va concentrandosi nelle mani di pochi. Un esempio drammatico viene dalla filiera del pomodoro: «Tonnellate di pomodori arrivano in Italia dalla Cina, vengono lavorati e colonizzano i Paesi africani, invasi da scatole di concentrato prodotto da aziende con nomi come Gino e la bandiera tricolore sul barattolo. Questi marchi simil-italiani stanno distruggendo le produzioni agricole africane perché hanno prezzi perfino più bassi delle loro. Il risultato è che i giovani abbandonano la terra e vanno a lavorare come schiavi nei campi del Sud Italia. Siamo tutti chiamati in causa, le piccole azioni moltiplicate per milioni di persone possono cambiare il mondo».

A questi paradossi del mercato si aggiunge l’impatto devastante del cambiamento climatico. Tumal Orto Galibe, pastore del nord del Kenya, racconta che negli ultimi quindici anni «perfino l’aspettativa di vita si è ridotta. Nelle comunità dei pastori abbiamo visto un aumento delle patologie. Ed è sempre più difficile adattarsi a un clima che cambia nell’arco di mesi mentre prima cambiava nei decenni: nell’aprile di quest’anno, in una sola notte di piogge improvvise e torrenziali ho perso più di 230 capi di bestiame».

Un produttore di formaggi di Cuba ha raccontato di recente che l’isola ha già ceduto terreno al mare ed è stata battuta di recente da cinque diversi uragani, la cui potenza è correlata alla crescente temperatura delle acque. L’uragano Irma possedeva una potenza pari a 7mila miliardi di watt (circa 2 volte le bombe usate durante la guerra mondiale) e ha lasciato il 40% della popolazione priva di elettricità, danneggiando la parte più turistica del Paese.

Non si tratta certo di impressioni individuali, perché ad avallarle ci sono i dati scientifici: «Siamo in chiusura della seconda estate più calda e della quarta più secca dal 1753, in Italia e in buona parte dell’Europa mediterranea» ricorda il climatologo Luca Mercalli.

Dopo il record del 2003, tutte le estati sono state più calde della media. Con conseguenze che l’agricoltura e l’alimentazione pagano fino in fondo: «Un recente studio francese ha esaminato gli effetti del cambiamento climatico sulle razze animali e i formaggi. Anche in alta montagna l’aumento delle temperature sta cambiando il modo di condurre gli alpeggi e i malgari sono costretti a tornare in pianura anche con un mese di anticipo. Siccità e parassiti arrivano dove finora non si erano mai visti».

Finora questi sconvolgimenti hanno avuto un impatto disomogeneo: alcune aree dell’emisfero nord ne hanno addirittura beneficiato. Ma non per molto ancora, affermano i ricercatori della Società Meteorologica Italiana Guglielmo Ricciardi e Alessandra Buffa: «Dal 2030 la riduzione dei raccolti vedrà un aumento esponenziale dei danni rispetto ai benefici».

Il settore agricolo è tra i più impattanti in termini di gas serra: con il 21% di emissioni è secondo solo alle attività legate all’energia (37%). La fermentazione enterica degli allevamenti industriali copre il 70% di questo dato.

«Non ci dobbiamo però concentrare solo sulla valutazione delle attività principali – avvertono i meteorologi – ma valutare le attività di preproduzione (mangimi e concimi) e di postproduzione (trasporto, stoccaggio, packaging). Le emissioni di CO2, poi, non sono l’unico parametro da considerare: vanno tenuti in conto anche il contesto geografico di produzione, la qualità dei suoli e il loro livello di tossicità e l’uso in quanto risorsa scarsa, l’utilizzo di acqua e di biosfera (water footprint e ecological footprint)».

Sebbene anche la Fao sottolinei la necessità di andare verso un’indagine multiprospettica, che tenga conto degli influssi del cambiamento climatico su sicurezza alimentare, nutrizione e perdita di biodiversità, siamo ancora lontani dall’avere una visione complessiva della filiera.

Così come troppo poco sappiamo del funzionamento globale degli oceani, conferma il biologo marino Silvio Greco: «Mentre in terra il cambiamento climatico offre diversi segnali, nelle acque questo non avviene. Sappiamo per certo solo che l’oceano fa qualcosa di straordinario: ci dà il 50% del nostro respiro, immagazzinando CO2. Eppure noi lo stiamo mettendo in crisi».

Quest’anno i biologi australiani hanno decretato la morte della Grande barriera corallina, il reef più vasto del pianeta con oltre 2300 km di coralli ormai quasi interamente sbiancati. Ma non va meglio in acque a noi più familiari: «Il Mediterraneo è ancora più compromesso. Al problema dell’innalzamento dei mari qui si sommano la forte salinità di un ambiente chiuso, l’acidificazione, l’arrivo di 300 specie aliene invasive».

Il Mare Nostrum conserva il 25% della biodiversità marina mondiale e ospita il 30% dei traffici commerciali, ma ora conta anche 1 tonnellata di plastica ogni 3 tonnellate di pesce.

Di fronte a tutto questo, conclude Greco, «non possiamo fare come Ulisse davanti alle sirene: la comunità scientifica è costretta a sentire il grido della Terra e a dire le cose come stanno».

Ma anche noi possiamo fare molto: scegliere cosa mettere nel piatto è un atto politico.

 Qui l'articolo originale

 

Foto: Muro di Ericailcane a Niort (Francia). 

Foto: f_barca/instagram

Questo articolo è stato pubblicato qui

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