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Ora di Religione: alternativa negata, parità fittizia

Questo è il novantesimo anno dalla firma dei Patti Lateranensi da parte del cavaliere Benito Mussolini e del cardinale Pietro Gasparri, segretario di Stato di Pio XI. Una buona occasione per chiedere ancora una volta l’abolizione dell’insegnamento della religione cattolica nelle scuole statali, che ne è tuttora uno dei portati più evidenti. 

Intanto la revisione del Concordato intervenuta a metà anni Ottanta ha almeno reso facoltativo tale insegnamento e permesso agli studenti e alle loro famiglie di avvalersi di un’autentica offerta didattica al posto di quella fideistica. In alternativa è anche possibile scegliere lo studio autonomo o quello assistito oppure l’uscita dalla scuola, cioè dei ripieghi tortuosi e discriminatori, specie per gli alunni più piccoli, mentre i più grandi possono fare buon viso a cattivo gioco. Solo le cosiddette “attività didattiche formative”in ogni caso prevedono un docente appositamente incaricato in Consiglio di classe (e dunque anche una valutazione agli scrutini), in parità con quanto previsto per l’insegnamento confessionale. Se poi i suoi programmi vertono sull’etica laica e sui valori condivisi, la scuola ha l’occasione per cercare di controbilanciare la propaganda a senso unico delle lezioni cattoliche.

Questo è pure l’anno in cui durante l’esame di Stato, a conclusione dell’intero ciclo scolastico, è previsto uno specifico spazio per i principi costituzionali, i diritti e i doveri dei cittadini. In fondo la scuola statale italiana è sempre in prima linea nella difesa e nella promozione della dignità umana, del civismo e della legalità tra gli studenti. Almeno finché ci si limita a ostentare buoni sentimenti e solidarietà di circostanza. Quando invece occorre rispettare fattivamente e in prima persona i diritti degli stessi studenti, le cose possono andare in modo piuttosto diverso. Per molti istituti ad esempio sembra troppo oneroso riconoscere l’eguaglianza degli alunni che preferiscono fare a meno della religione a scuola, offrendo loro le previste attività alternative, tanto da violare con disinvoltura la normativa vigente ostacolando la libera scelta dell’utenza. È certo che in un Paese come il nostro, laico solo a parole, simili esercizi di ipocrita discriminazione istituzionale possono in qualche modo costituire insegnamenti formativi per i giovani e non solo per loro.

Non è facile stabilire quanto sia diffuso il fenomeno, giacché sfugge facilmente al controllo esterno. Le famiglie in genere si fidano di quanto viene loro comunicato dalle scuole dove hanno iscritto i propri figli, senza sospettare forme sistematiche di disinformazione. Anche quando si accorgono che qualcosa non quadra, i genitori preferiscono spesso evitare di apparire come dei rompiscatole o di esporre i propri figli alla berlina. Nei pochi casi in cui il malcapitato se la sente di levare ferme obiezioni la disputa comunque vada resta perlopiù (ma non sempre, per fortuna) tra le mura scolastiche. Ormai però tutte le scuole sono tenute alla trasparenza, sono dotate di un sito accessibile, vi pubblicano il Piano dell’offerta formativa (ora triennale: PTOF) e persino buona parte delle circolari. Il Circolo UAAR di Milano ha curiosato tra la documentazione resa disponibile dalle scuole di quel comune, facendo emergere irregolarità di vario tipo, dalla mancata menzione di opzioni alternative all’insegnamento religioso, alla confusione tra studio autonomo e studio assistito, fino alla sistematica negazione dell’attività didattica formativa, con tanto di modelli ministeriali arbitrariamente manipolati. I casi più notevoli sono rappresentati da quegli istituti che non sai bene se detestare per la spudoratezza o ammirare per la franchezza, visto che arrivano a mostrare a tutti le schede taroccate (già segnalati sui social, quiqui e qui: l’ultimo caso, riguardando una scuola elementare e una media, è senz’altro il più grave). La pubblicazione di queste notizie tra l’altro stimola gli utenti a riferire dei loro casi personali, che altrimenti resterebbero sconosciuti e che fanno intravedere un sottobosco di violazioni piuttosto diffuso. Tra l’altro, se questo accade in una grande città come Milano, viene spontaneo chiedersi cosa mai succeda nella provincia, nei piccoli centri, e in molte aree del Mezzogiorno, dove la scelta dell’insegnamento cattolico continua a essere eccezionalmente alta.

Capita di leggere che quando ci si lamenta, magari citando la normativa, le scuole più o meno malvolentieri ripristinino la regolarità, almeno a beneficio del singolo contestatore. Capita anche che gli uffici locali, se sollecitati, siano disponibili a richiamare le scuole al rispetto delle regole. Capita però pure che le scuole continuino a fare come vogliono lamentando una presunta impossibilità pratica a incaricare docenti per le attività alternative o spacciando lo studio autonomo per un’attività didattica o con altri pretesti ancora. E capita persino che gli uffici regionali (i “provveditorati” di una volta), si accontentino di farsi prendere in giro con simili scuse (è senz’altro il caso di quello di Milano). Sarà magari vero che la normativa è macchinosa e di difficile applicazione, ma allora sarebbe il caso che proprio gli addetti al settore e dunque gli esperti lo denunciassero a gran voce reclamando gli opportuni emendamenti, anziché ricorrere a sotterfugi poco dignitosi. Finora le regole sono quelle ed è intollerabile che proprio chi è chiamato in prima linea ad assicurarne l’applicazione in modo esemplare per i cittadini del futuro sia invece il primo a violarle contro di loro a man salva.

Dovrebbero essere allora gli uffici ministeriali a intervenire con direttive a carattere generale per prevenire ogni discriminazione, intimando l’inserimento di informazioni chiare sull’alternativa nel PTOF, nel sito ufficiale, nelle circolari e, per ristabilire l’equità, almeno in ogni contesto in cui si menzionano le ore di religione. Nei casi poi in cui la violazione dei diritti degli studenti e delle loro famiglie si è già verificata e continua a verificarsi sistematicamente, tali uffici dovrebbero dichiararsi parte lesa, sentirsi i principali interessati in quanto deputati al controllo del buon andamento dell’amministrazione. Specialmente quando a tale scopo viene persino alterata la modulistica da essi stessi approntata. Non siamo giuristi e ignoriamo se sia ravvisabile l’omissione di atti d’ufficio o il falso in atto pubblico o illeciti più veniali, ma è grottesco che si continui a rispondere col silenzio e l’inerzia.

Se si prova a interessare le direzioni del Ministero dell’Istruzione che appaiono competenti in materia (chi si occupa degli alunni stranieri o svantaggiati, del benessere e della partecipazione degli studenti, dell’offerta formativa e dei regolamenti, eccetera), non si ottiene alcun riscontro. Se va bene, giusto quando si segnala un caso specifico, si viene indolentemente rimandati all’ufficio regionale e infine ancora alla buona volontà della dirigenza degli stessi istituti segnalati, col più paradossale degli scaricabarili. Si può solo immaginare che cosa accadrebbe se in qualche scuola fosse anche solo vagamente messo in forse l’insegnamento cattolico a spese dello Stato. Ne sorgerebbe un caso nazionale con scambi di denunce, sospensione di dirigenti, rimozione di funzionari, inchieste giornalistiche, manifestazioni di piazza, indignate interpellanze, interrogazioni parlamentari e pubblici pronunciamenti delle autorità più diverse. Ma quell’insegnamento, si obietterà, è attivato di principio e in modo pressoché automatico. Appunto.

 

Andrea Atzeni

Questo articolo è stato pubblicato qui

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