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New town o new village a L’Aquila

La nuova città disegnata ed attuata, con procedura d’urgenza, dalla Protezione civile a L’Aquila rispetterà le caratteristiche dei luoghi? Tutte le "case portate dal terremoto" saranno adeguate alle necessità degli sfollati? E’ meglio un uovo oggi o una gallina domani?

Dopo l’evento drammatico e catastrofico del 6 aprile, L’Aquila può rivivere “com’era e dov’era”? Certamente sì, se i processi di trasformazione vengono guidati e governati affinché si realizzi il principio fondamentale che attiene alla capacità di rinnovamento senza perdita d’identità.
 

Invece, gli artefici della ricostruzione in Abruzzo hanno denotato di non sapere percepire e salvaguardare in alcun modo la sua identità, e non tanto in quanto “foresti”, ma semplicemente per l’ostinata esibizione di un’estraneità culturale e storica con le comunità locali e con i luoghi, ovvero per la mancata percezione del genius loci.
 
Nel tenere, ancor oggi, pressoché “blindato” il centro storico del capoluogo e nel non intervenire minimamente in quello dei dintorni, dimostrano di non aver mai colto l’importanza de l’âme de la cité, l’anima della città. Proponendo dal primo istante una new town, non hanno saputo e voluto identificare tutto ciò che, per delle ragioni estetiche, di storia e di memoria, si conserva e permane nella naturale evoluzione del tessuto urbano, anzi si configura come fatto di aggregazione e di propulsione del tessuto stesso. Non per ragioni funzionali, “razionaliste”, ma meramente politico-operative, il tutto urbano è stato scomposto in residenze ed in monumenti. Così, mentre l’intera comunità era ferita a morte, mentre 50 mila residenti erano “sfollati”, mentre le attività produttive seriamente compromesse erano bloccate, alcuni interessati “ex-palazzinari” hanno avviato la ricostruzione delle case costruendo C.A.S.E. (i Complessi Abitativi Sostenibili ed Ecocompatibili). E solo per alloggiare, entro la fine dell’anno, 12 – 14 mila persone con la casa “distrutta o dichiarata inagibile dopo le verifiche della Protezione civile”.

Per contro, alcune delle prestigiose strutture urbane sono state “puntellate” alla meglio per esibirle agli illustri visitatori del G8, nella speranza di ottenere il rilancio dell’offerta iniziale di contributi atti a ricostruirle. Con l’ibernazione del corpo, hanno mandato a morte certa pure l’anima della città: nessuna attività è stata incentivata se non in forma puramente assistenziale. Quanto doveva essere temporaneo rischia di diventare definitivo: la macchina della Protezione civile mantiene ancora in vita comatosa la quasi totalità della popolazione. Dopo tre mesi e mezzo, questa alimentazione forzata (razionata ed irrigimentata) dei senza tetto appare come una “palestinizzazione” sociale dell’intera comunità.
 
Perché? Per non disturbare il manovratore? Ma che sta veramente facendo il commissario?
 
Poiché abitare, risiedere, significa disporre di una casa e la tipologia della casa, il tipo prevalente dell’abitazione propria d’una città è ciò che meglio caratterizza i costumi, i gusti, gli usi di un popolo, ma soprattutto costituisce un ordine la cui distribuzione e la cui forma non si modificava che in tempi molto lunghi, i residenti hanno repentinamente respinto il progetto di ricostruzione del tessuto urbano secondo canoni calati dall’esterno ed hanno rivendicato una riedificazione degli abitati con maggiore aderenza ai caratteri del luogo.
 
Di conseguenza, la new town iniziale è stata semplicemente suddivisa in 20 porzioni simili. Dappertutto, la reiterazione delle stesse case plurifamiliari di 3 piani, simili al prototipo iniziale. Ovunque, condomini con 30 alloggi di differente metratura (monolocali - trilocali), per 80 persone. In ogni luogo, seppur con materiali diversi, blocchi abitativi disposti su piattaforme antisismiche interrate, da 600 mila euro l’una, per il ricovero di 18 autoveicoli su 2 lati, tra 40 pilastri in fila per 4.
 
Sebbene differentemente aggregati, questi moduli abitativi saranno inadatti sia al carattere urbano (nelle due o più aree prossime al capoluogo) sia a quello rurale (nelle restanti aree individuate nei pressi dei borghi esterni). In altra sede, criticando queste pseudo case sul piano architettonico e costruttivo, ho condiviso il biasimo di alcuni illuminati potenziali “utilizzatori finali” che considerano queste soluzioni abitative permanenti una subdola alternativa alla ricostruzione delle vere case preesistenti e caratterizzanti i centri colpiti dal sisma. [1]

Con blande considerazioni circa l’imposizione da parte delle istituzioni governative del modello di ricostruzione, A. Ciccozzi censura anche la corresponsabilità dell’amministrazione locale che, nel chiedere di localizzazione gli interventi in virtù di una “volontà di difesa identitaria”, viene poi condizionata da manovre speculative atte a difendere dall’esproprio alcuni terreni prossimi all’edificato del capoluogo, ovvero i più appetibili per altre future destinazioni d’uso. In effetti, sono stati definiti “esecrabili” ricatti urbanistici quelli posti in essere anche dalla struttura che “si richiama al movimento cooperativo”, che gode di privilegi particolari nel paese, ma che, per difendere dall’esproprio terreni già destinati alla costruzione di un “Ipercoop”, ha messo in mobilità i 100 occupati nei propri supermercati del luogo.

In definitiva, la compartecipata “urbanizzazione d’emergenza” viene così stigmatizzata: “la sistemazione promessa agli sfollati aquilani - in nome dell’emergenza, dell’efficienza, della sostenibilità, della temporaneità dei prossimi dieci anni - dal progetto C.A.S.E. dovrebbe essere messa in atto non in una logica di separazione, ma riportando le famiglie il più vicino possibile rispetto a dove si era vissuto fino al sei aprile. Ciò per mantenere un senso dell’esistenza-nel-luogo che altrimenti minaccerebbe di degenerare in angoscia da spaesamento, cosa che avviene quando si è costretti alla distanza coatta da ciò che – nel senso più ampio del termine - si era costruito durante la vita, e per un futuro a cui si ha ancora diritto ad aspirare”. [2]

Pur condividendo le successive argomentazioni del docente di Antropologia culturale dell’Università de L’Aquila sulla paventata tendenza alla destrutturazione del genius loci, non posso convenire sulla valutazione connessa ai rischi di ghettizzazione dei cittadini dovuta non solo dal “come” saranno realizzati i moduli abitativi ma soprattutto dal “dove” verranno collocati. Perché, egli chiede, si dovrebbero incentivare gli sfollati urbani a non lasciare L’Aquila quando a molti di loro si promette “una sistemazione che rileva già una messa in esilio geografico dalla quotidianità che c’era prima del sei aprile”? In sostanza, sembra di capire che i casermoni proposti dalla protezione civile, qualora vengano costruiti in gran parte fuori dalla cinta periferica, “rischiano di configurarsi come espressione di un moto di separazione, di allontanamento degli sfollati (e probabilmente, tramite ciò, di rimozione dell’evento catastrofico). In tal modo si delinea una cittadinanza di serie B, espulsa dal territorio urbano del comune, esiliata per anni (cinque? dieci? quindici?) in un altrove rurale, dentro abitazioni che deturperanno luoghi in cui sarebbe stato più sensato pensare a un’edilizia in legno finalizzata unicamente all’alloggio degli sfollati dei paesi”.

 
Non essendo del posto non sono in grado di percepire appieno gli effetti prodotti dalla “lontananza” tra periferia urbana e periferia territoriale di cui parla lo studioso locale, ma vorrei fare presente che i “casermoni” possono essere tanto di cemento quanto di legno. Consultando il sito della Protezione civile diventano palesi le seguenti due questioni connesse ai materiali delle costruzioni proposte. In primo luogo, ad onor del vero, si deve riconoscere che nel Progetto C.A.S.E. risultava definita solo la qualità e la consistenza delle piattaforme antisismiche in cemento armato, mentre la parte abitativa vera e propria poteva essere costruita con vari materiali. Spettava alla ditta concorrente indicare quello prescelto e, quindi, non si può escludere che la selezione dei progetti concorrenti sia anche stata fatta in base a criteri di corrispondenza tra modalità costruttiva e localizzazione ambientale. In seconda istanza, si dovrebbe considerare che la Protezione civile intende realizzare, proprio in legno, i M.A.P., ovvero i Moduli Abitativi Provvisori. A differenza dei Complessi Abitativi Sostenibili ed Ecocompatibili che, alla fine della fiera, potrebbero diventare anche residenze turistiche, le casette in legno dei M.A.P. sono temporanee e quindi rimovibili a ricostruzione avvenuta delle vere case ora dichiarate inagibili. Si veda la scheda comparativa. [3]

Disorienta constatare che: le “c.a.s.e.” saranno fatte per 13 mila abitanti e costeranno 330 milioni di Euro (1.300 € a metro quadro), mentre i “m.a.p.” sono destinati a 3 o 4 mila abitanti e costeranno 60 milioni di Euro (760 € a m2). Allarma sapere che per le “c.a.s.e.” il bando è stato pubblicato il 22 maggio, mentre per i “m.a.p.” la procedura è partita solo un mese dopo. Altre preoccupazioni sorgono nel constare l’evidente carenza di chiarezza nell’indicare i destinatari delle succitate “soluzioni riabitative”. La Protezione civile dovrebbe chiarire perché su una richiesta di 1.900 moduli avanzata dai “comuni del cratere” ne ha preventivati solo 1.500 e dovrebbe comunicare perché non sono ancora agibili gli 800 moduli donati da imprese, istituzioni, fondazioni ed associazioni. Nelle tendopoli si deve sapere perché occorre restarci e per quanto ancora.
 
Infine, quasi anticipando un “otto settembre”, alcuni sfollati sono stati indotti a rifugiarsi in prefabbricati, direttamente acquistati e liberamente disposti nei vari terreni disponibili.
 
Perciò, reputo tutte queste case, “popolari” o “populiste”, della “protezione civile” o della “provvidenza” vicina o lontana, edificate nella “limitrofia” del centro o seminate nelle orbite meno prossime ad esso, insomma ogni “casa portata dal terremoto” analogamente foriera di mutamenti profondi alla cultura antropologica dei luoghi colpiti, prima dal sisma e poi dalla shock economy.
 
Per restituire “a L’Aquila almeno il rango di prima” credo non serva attardarsi a disquisizioni intellettualistiche e fuorvianti finalizzate a stabilire, a tavolino, se la New Town proposta all’inizio dalla Protezione Civile avesse, rispetto alla attuale n e w t o w n esplosa sul territorio (o dis-integrata che dir si voglia), maggiore possibilità d’integrazione rispetto alla città preesistente o maggior rispetto del territorio rurale. Ciò che viene fatto sarà visibile da tutti e, quindi, sarà valutato.
Immediatamente, invece, occorre giudicare nefasto ogni tentativo di sperare ancora che la carità di stato non si trasformi in “propaganda paternalistica del potere costituito”. Ormai, anche qui il re è nudo: pensiamo agli studenti che hanno fatto esami dormendo in macchina e che non sanno se continuare la frequenza dei corsi perché al Rettore magnifico non è ancora stata assicurata una sede dove tenerli in modo decente; pensiamo a tutti quelli che non hanno lavoro perché nulla è stato fatto per farlo riprendere nelle forme adeguate a vivere ed a pagare le tasse che ora vengono nuovamente richieste da un governo, come la natura, spesso anche crudele; pensiamo alla parte della città vuota, percorsa solo dai mezzi delle forze dell’ordine; pensiamo a tutti coloro che necessitano di cure, di assistenza o di semplici informazioni e devono attenderle in ambienti disumanizzanti, innaturali, quindi quasi criminali; pensiamo a coloro che hanno bisogno di stare anche solo per qualche minuto nei luoghi dove lavoravano, dove passeggiavano, dove portavano i figli a prendere il gelato la domenica pomeriggio; pensiamo a A. Ciccozzi che, riflettendo sull’anima della città minacciata di morte e con il corpo distrutto, dice: “Penso alla vicenda recente della povera Eluana Englaro, al suo corpo costretto dalle macchine istituzionali a vivere senza l’anima”.

Senza indugio, dobbiamo convenire che, per non morire, L’Aquila (periferia e “zona rossa”), in tutte le ore ed in ogni senso, deve poter essere attraversata sia da fiaccolate sia dal fiaccheraio.


[ 1 ] – allegato “c.a.s.e. & cemento”;
[ 2 ] – Antonello Ciccozzi “Il Piano CASE e la distruzione dell’identità”, pubblicato in Abruzzo24ore
[ 3 ] – tabella comparativa allegata, elaborata estrapolando i dati disponibili in Protezione civile
 
Credits Foto: www.laquilanuova.org
 

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