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Mia madre in Corea del Nord

Il dilemma di un ateo che dovrà seppellire un familiare credente. La testimonianza di Paolo Ferrarini sul n. 5/2021 della rivista Nessun Dogma.

Che la religione possa complicare i rapporti familiari è un fatto che ammettono senza problemi i credenti stessi. Al profeta di riferimento dei cattolici la tradizione fa dire crudeltà del tipo: «Sono venuto a portare non la pace ma la spada, a separare l’uomo da suo padre e la figlia da sua madre…». Quando queste fratture si materializzano concretamente nelle vite reali di uomini e padri, figlie e madri del nostro tempo, siamo di fronte a una delle conseguenze a mio avviso più tristi e deprecabili del persistere nella società di un’ideologia che, per la sua natura irrazionale e la sua aspirazione universalista, può condurre anche le persone migliori ad assumere atteggiamenti malsani.

Molti resoconti di abbandono della religione, che nella più tipica dinamica conflittuale contrappongono i figli alla cultura che hanno ricevuto dai genitori, li abbiamo già ascoltati numerose volte, per esempio nei testimonial sullo sbattezzo. Ci è facile immedesimarci in queste storie, soprattutto se rievocano percorsi che noi stessi abbiamo affrontato, e ci piacciono le narrazioni che pongono l’accento sullo sforzo individualistico di arrivare con la nostra testa a una conclusione, da rivendicare e difendere coerentemente, anche a costo di tagliare i ponti con chi a quelle conclusioni non arriverà mai.

Meno spesso sentiamo parlare di ciò che accade dopo, di come evolvono i rapporti con persone che comunque continueranno ad avere un ruolo nella nostra vita. Il tema è estremamente delicato, privato, e tocca famiglie diverse in modi unici e difficilmente generalizzabili. Per questo ritengo che una discussione onesta possa partire soltanto dal vissuto personale. Il lettore con bassa tolleranza per i testi esperienziali è pertanto avvisato che nelle prossime righe potrebbe fare un incontro più intimo di quanto possa gradire con uno di questi vissuti.

Una potente analogia per descrivere il mio processo di affrancamento dalla religione me la suggerì niente meno che Christopher Hitchens, nel 2007, a un incontro di presentazione del suo libro Dio non è grande, durante il quale paragonò il sistema di credenze cattolico a una “Nord Corea celeste”, un universo distopico dove un onnipresente quanto evanescente “Caro Leader” controlla ogni aspetto della tua vita e ogni tuo pensiero, imponendoti di essere perennemente lodato e ringraziato a prescindere dalle tue squallide condizioni di vita materiale e mentale, premiandoti o punendoti in proporzione alla tua lealtà e manifesta adesione all’allucinazione collettiva sancita dogmaticamente dall’alto.

Mi affezionai subito a questa immagine, perché emanciparmi dal cattolicesimo per me era stato proprio questo, un atto di defezione dalla dittatura nordcoreana, l’attraversamento della frontiera con il sud, con il mondo reale. Un mondo dove finalmente trovavano risoluzione le insostenibili contraddizioni tra ciò che intimamente credevo e quello che raccontavo (in primis a me stesso) di credere, un mondo dove la ragione poteva essere usata liberamente per dare risposte significative alle grandi domande anziché essere costretta nei limiti di insoddisfacenti conclusioni prestabilite e di assiomi non negoziabili.

Ora, quando la libertà viene conquistata a costo di erculei sacrifici psicologici, come risultato di uno sforzo interamente individuale, senza il sostegno e anzi contro il parere dell’intera comunità di origine, l’ultima cosa che si è tentati di fare è tornare indietro, anche solo a visitare per un’ora: l’idea di rimettere piede al nord è ripugnante; profondamente umiliante il pensiero di esservi un tempo stato volontariamente complice. Col passare degli anni, questa posizione si è andata cristallizzando, creando una faglia irreparabile nei rapporti con una famiglia che non aveva in alcun modo partecipato alla mia transizione, rimasta risolutamente dietro il filo spinato di quella frontiera invalicabile. È la premessa di un dilemma che col tempo si è fatto sempre più rilevante: come comportarsi quando i membri di questa famiglia verranno a mancare.

Ricordo un simpatico battibecco a tavola in cui mia madre un giorno mi chiese delucidazioni su cosa fare in caso dovessi morire. Più o meno, il suo ragionamento fu: «Visto che tu non credi a niente, tanto vale che ti facciamo un funerale in chiesa, come vorremmo noi». Ovviamente non potei che ironizzare sul fatto che probabilmente sarebbe morta prima lei, e che se le cose stavano così, allora anch’io avrei fatto quello che volevo con la sua salma e non l’avrei portata in chiesa. Non è tuttavia la questione delle mie esequie a preoccuparmi: quello dei funerali laici è giustamente un tema su cui l’associazione si impegna energicamente da sempre, ma dalla prospettiva di un incallito individualista mi appassiona relativamente poco l’idea di lasciare un retaggio e di investire in uno show a cui non parteciperò. Il dubbio vero riguarda le scelte etiche da affrontare adesso, in vita.

Per vent’anni ho sistematicamente evitato di partecipare a qualsiasi cerimonia religiosa. Non sono stato a nessun matrimonio (per fortuna quelli della mia generazione hanno già sostanzialmente smesso di sposarsi in chiesa) e soprattutto ho saltato impunemente e senza alcun rimorso di coscienza tutti i funerali di nonni, zii e conoscenti vari. In un contesto di reciproco rispetto fondato sul quieto vivere, nessuno in famiglia ha mai criticato le mie scelte. Ma con il passare del tempo, la morte inevitabilmente arriva a bussare a porte sempre più vicine, e la questione inizia a porsi in modo più significativo. Un primo importante test si è verificato quattro anni fa, quando ho perso una sorella maggiore.

Non ho pensato neanche per un secondo all’opzione di andare al suo funerale in chiesa, e nessuno si aspettava che lo facessi. Ma nel suo caso la scelta è stata facile: trattandosi di una donna di fatto non credente e loquacemente anticlericale, in un certo senso posso dire di essere stato l’unico che ha realmente rispettato la sua persona e la sua memoria nel mio non piegarmi a una tradizione che pure lei aborriva. Inoltre, qualche giorno dopo ho sovracompensato la mia assenza organizzando una cerimonia laica di commemorazione, un evento pieno di vita e di luce che auspico abbia aiutato i partecipanti a immaginare che un’alternativa più bella, più sincera e più umana per salutare i propri cari è concepibile e realizzabile.

Ma nel caso dei miei genitori, entrambi convinti e/o identitariamente credenti, la prospettiva è diversa. Nell’ottica del rispetto della loro persona e delle loro idee, ma anche del supporto emotivo ai restanti membri della famiglia, la scelta eticamente corretta parrebbe essere quella, per così dire, di giocare nel loro campo.
Cercando pareri online, scopro una quasi totale assenza di confronto. I commenti in cui mi imbatto in un forum in inglese sul tema «Gli atei vanno ai funerali?» per un istante mi fanno sentire un mostro: tutti gli intervenuti, senza eccezione, hanno risposto di andare sempre ai funerali, inclusi quelli religiosi.

Dal senso di insofferenza espresso da alcuni, l’impressione però è di leggere, più che argomenti elaborati razionalmente, una serie di reazioni istintivamente volte a scrollarsi di dosso la sottile accusa, implicitamente deducibile dalla domanda, di essere persone orribili in caso di risposta negativa, quasi se mancare a un funerale infrangesse l’immagine che i non credenti stanno collettivamente cercando di stabilire di essere “buoni senza Dio”. «Non fa male a nessuno – leggo su un’altra pagina – andare a una cerimonia religiosa. Anzi, potrebbe rivelarsi un’esperienza arricchente».

Davvero? Mi immagino alla cerimonia di mia madre, mentre un prete fa affermazioni sciocche, false, stereotipate o senza alcun reale significato, insopportabili nelle circostanze, che offendono il mio intelletto e l’umanità di una persona a me cara, in un’atmosfera lugubre di freddi silenzi e bisbigli riverberati, e tutto quell’affettato contegno. L’addio a una persona dovrebbe servire a dare un senso di chiusura e di conforto, ma io non potrei fare a meno di provare sconcerto, rabbia, amarezza. Penserei a questa donna che ha passato tutta la vita lì, in Nord Corea.

Una donna la cui esperienza è stata costellata da molti più drammi di quanti meritasse, un sottoinsieme dei quali però non sarebbe stato affatto un dramma, o quantomeno sarebbe stato molto più facile da affrontare in una prospettiva filosofica umanista, libera dai tabù, dalle contraddizioni, dalle dissonanze e dai sensi di colpa inclusi nel pacchetto “Il conforto della religione” propinato dal Caro Leader: un veleno che la gente è indotta a chiamare medicina. Divorzio, aborto, omosessualità, suicidio… Quanto inutile stress aggiunge una religione come quella cattolica nell’elaborare questi fatti della vita?

E così finirei per dispiacermi di non averle saputo dare in vita un assaggio della bellezza del mondo reale, lontano da questo ambiente psicologicamente tossico. E ancora, a quella ipotetica funzione, sarei consumato dal senso di umiliazione per l’intollerabile resa alla dittatura celeste, la quale trarrebbe legittimità dalla mia presenza, una riprova agli occhi del mondo che alla fine, nei momenti che contano davvero, anche un disertore torna alla casa del Caro Leader. Ma naturalmente non tutto inizia e finisce nella mia sensibilità. Diviso equamente tra il dare priorità alle mie ragioni oppure metterle da parte per prestarmi a un atto di generosa abnegazione, se capitasse domani ancora mi troverei impreparato, incerto sul da farsi. Suppongo che dovrò affidarmi all’istinto del momento per prendere la decisione finale.

Nel frattempo, mi chiedo se questo dilemma – nelle varianti adattate alle singole biografie – esista e sia diffuso anche fra altri membri dell’associazione, e se si possa trarre reciproco beneficio da una maggiore condivisione di esperienze e riflessioni su questo aspetto così delicato dell’essere non credenti.

Paolo Ferrarini

 

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