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Mafia, religione e antimafia

Da secoli tra la Chiesa cattolica e la mafia esiste un rapporto ambiguo, fatto anche di legami e collusioni. Raffaele Carcano analizza la relazione tra criminalità organizzata e mondo cattolico sul numero 6/2023 di Nessun Dogma.

 

«Non voglio funerali religiosi da questa Chiesa corrotta. Rifiuto ogni celebrazione religiosa da uomini immondi». Non sono le parole di un defunto la cui famiglia ha chiesto all’Uaar di organizzare un funerale laico. Sono parole del boss mafioso Matteo Messina Denaro, ritrovate in un pizzino del 2013. Parole che hanno avuto una certa risonanza e che hanno suscitato qualche interrogativo sullo stato dei rapporti tra chiesa cattolica e criminalità organizzata. Rapporti di lunga data, peraltro. Costitutivi, probabilmente.

Mafia, camorra, ‘ndrangheta e sacra corona unita (corsivo mio) sono nate e continuano a prosperare in regioni zelanti, in cui la Chiesa ha sempre goduto di un’influenza enorme. La malavita l’ha sempre cercata con insistenza, come ha cercato qualsiasi altro potere effettivo. Ed è stata sovente ricambiata.

A titolo di esempio, con la possibilità di entrare nelle confraternite e nelle processioni, attraverso le quali l’organizzazione criminosa ha potuto esibire alla popolazione la propria autorità, alla quale tutti sono quindi tenuti a tributare il necessario ossequio. Sbandierando la propria devozione, la mafia ha riconosciuto il ruolo centrale della confessione cattolica nella società. Ma altrettanto ha fatto la Chiesa, piegandosi a celebrare funzioni nei covi dei latitanti.

Una legittimazione reciproca, come lo furono i Patti lateranensi col fascismo. Un matrimonio di interessi, e di interessi amplissimi: dalla cooperazione sottobanco nel secondo dopoguerra per fermare l’avanzata della sinistra (in quanto movimento “ateo”) agli accordi che permettevano ai corleonesi di riciclare i proventi illeciti grazie a banchieri cattolici come Michele Sindona e Roberto Calvi, o persino direttamente in Vaticano, presso lo Ior.

E che dire dei rapporti “di base”? In un’intercettazione di qualche anno fa, una suora della congregazione delle Ancelle francescane del Buon pastore vantava la protezione offerta dalla ‘ndrangheta. Alcuni parroci pagano addirittura il pizzo.

La collaborazione ha trovato innumerevoli modalità di esprimersi. La più frequente, le bacchettate riservate dalle gerarchie ecclesiastiche ai sacerdoti troppo impegnati, e gli attacchi all’uso dei pentiti. Ma ci sono stati anche interventi diretti: nel 1992 monsignor Domenico Amoroso, allora vescovo di Trapani, inviò al ministero dell’interno diverse lettere scritte da familiari di mafiosi che protestavano contro il regime del 41 bis.

Ci sono stati casi in cui le figure del religioso e del criminale si sono sovrapposte, come nei quattro francescani di Mazzarino che negli anni cinquanta commisero delitti incredibili. Don Agostino Coppola, che sposò Riina, fu condannato per sequestro ed estorsione, ma fu sospeso dal Vaticano soltanto molti anni dopo.

Le collusioni e le omertà sono ancora all’ordine del giorno, e in Vaticano lo sanno benissimo. Nel 2015 il procuratore nazionale antimafia, Franco Roberti, sostenne che «la Chiesa potrebbe moltissimo contro le mafie e gran parte delle responsabilità le ha proprio la Chiesa, perché per secoli non ha fatto niente». Quale miglior sintesi?

Se una Chiesa influente come quella meridionale avesse contrastato sin dall’inizio i gruppi criminali, gli stessi non avrebbero mai potuto raggiungere le dimensioni che hanno attualmente. Anche la dottrina ha le sue colpe, per la considerazione che riserva alla devozione, anche quando è quella degli autori di delitti tra i più efferati.

E gran parte dei mafiosi è devota, in alcuni casi devotissima. Pietro Aglieri, killer al 41 bis, ha studiato in seminario ed è laureato in religione – quando lo arrestarono, nel covo trovarono una vera e propria cappella votiva. I mafiosi continuano a ricorrere alla chiesa cattolica per i riti di passaggio chiedendo battesimi, comunioni, cresime e matrimoni che vengono quasi sempre impartiti senza porsi troppe domande.

Le cerimonie, è vero, possono anche rappresentare occasioni per consolidare alleanze, come è stato riscontrato ovunque nelle società premoderne. Ed è altrettanto vero che è impossibile scrutare le coscienze per comprendere quanto sincera sia la fede. Ma la devozione è attestata da una montagna di prove.

Sono costituite dagli inventari di quanto rinvenuto nei covi dei ricercati: crocifissi, statue, libri religiosi a gogò. Le edicole votive sono particolarmente numerose proprio nei quartieri a più elevata densità criminale. Il santuario della Madonna di Polsi è da sempre il luogo prediletto dai capimafia di San Luca per discutere delle proprie strategie.

Esiste però anche un’opinione pubblica che si chiede come sia possibile che la Chiesa che nel 2015 ha negato i funerali a Piergiorgio Welby abbia potuto, l’anno dopo, aver celebrato la messa funebre per il capomafia Bernardo Provenzano. Nello stesso anno furono vietati i funerali pubblici a Giuseppe Barbaro, affiliato alla cosca di Platì: eppure si sono poi svolti lo stesso, con tanto di funzione in chiesa.

In assenza di una richiesta esplicita si comincia finalmente a non effettuare alcun rito: accadde per Riina, morto nel 2017, ed è accaduto per Messina Denaro. Ciononostante, all’obitorio dell’Aquila (dove era conservato il suo corpo) si sono presentate tre suore di clausura che volevano pregare per lui, e sono state opportunamente allontanate: certe costumanze sono più dure a morire dei mafiosi.

Messina Denaro ha comunque lasciato anche scritto che «il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità». Qual è dunque il rapporto dei mafiosi con la religione? La loro idea di divinità è facilmente molto soggettiva e sicuramente assai “comprensiva” dei loro delitti. Sono quasi tutti credenti in qualcosa, ed è quindi veramente difficile attribuire loro patenti di ateismo.

Eppure, è proprio ciò che hanno fatto autorevoli dirigenti cattolici. Nel 2014, un comunicato della Conferenza episcopale calabra ha affermato che «la ’ndrangheta è negazione del Vangelo. Essa è non solo un’organizzazione criminale che come tante altre vuole realizzare i propri illeciti affari, con mezzi altrettanto illeciti, ma – attraverso un uso distorto e strumentale di riti religiosi – è una vera e propria forma di religiosità capovolta, di sacralità atea».

Secondo monsignor Vincenzo Bertolone, arcivescovo di Catanzaro, «la mafia è una forma di ateismo», perché «chi ha scelto di appartenere a essa ha rifiutato il cristianesimo».

Non sequitur: anche chi ha scelto di appartenere all’islam ha rifiutato il cristianesimo. Eppure, benché strumentale e persino risibile, benché in palese contraddizione con pratiche plurisecolari, la posizione cattolica non è certo una novità. La mafia è stata accusata da esponenti cattolici di essere stata legata ai carbonari prima, ai massoni poi.

Ci sono stati teologi che hanno definito i mafiosi «apostati» e papi che hanno chiesto loro di convertirsi. Davanti alla scuola superiore di polizia, un sacerdote ha affermato che «la mafia è strutturalmente una grave forma di ateismo». E non si trattava di un prete qualunque, ma di don Luigi Ciotti. Che è capo di Libera, di gran lunga la più importante organizzazione antimafia italiana.

Non diversamente da altre organizzazioni, nella Chiesa ci sono alcuni criminali, un certo numero di conniventi, e quelli (la maggior parte) che cercano di stare alla larga da qualunque seccatura. Qualcuno il crimine lo combatte invece apertamente, ricevendo in cambio anche pesanti avvertimenti, come don Patriciello a Caivano.

In passato, due sacerdoti ci hanno lasciato la pelle: don Diana, ucciso dai casalesi, e il parroco palermitano don Puglisi, beatificato nel 2013 da papa Francesco. Due anni fa, Bergoglio ha beatificato anche un’altra vittima, il giudice Rosario Livatino. Ma i preti antimafia non sono molti: l’esistenza stessa dell’espressione specifica “prete antimafia” lascia capire che non si tratta di plotoni.

Eppure, è indubbio che la loro influenza sia ben più ampia. È una constatazione che si ritrova in diverse pagine del libro L’inganno, scritto dal giornalista Alessandro Barbano. La sua impostazione non è né progressista né laica ed è figlia di un cattolicesimo politico nostalgico della prima repubblica, tipico dell’editore Caltagirone per cui ha a lungo lavorato (Mattino, Messaggero): emblematica la difesa di Giulio Andreotti. Un punto di vista ipergarantista, che non sorprendentemente attacca soprattutto gli ipergiustizialisti.

Ogni lettore avrà la sua opinione su questa ennesima polarizzazione della società italiana, che esula però dai fini dell’articolo. Quello che ci riguarda è che Barbano se la prende con un presunto progetto autoritario che, in nome dell’emergenza, vorrebbe introdurre «provvedimenti eccezionali» e illiberali.

Di esso, «il cattolicesimo moralista e intransigente» sarebbe «la matrice ideologica». Tale strategia sarebbe «incarnata» soprattutto da don Ciotti, accusato nemmeno troppo velatamente di nutrire «l’interesse a consolidare l’enorme potere costruito grazie al rapporto con la magistratura».

Tra i bersagli preferiti dell’autore ci sono anche l’ex giudice Gian Carlo Caselli, noto attivista del cattolicesimo di base, nonché Rosi Bindi: la commissione antimafia da lei presieduta sarebbe stata «un sinedrio di censori», e la riforma del codice antimafia di cui è stata la prima firmataria rappresenterebbe «il grimaldello per scardinare la porta già traballante dello Stato di diritto e mettere l’intera società sotto tutela giudiziaria».

Come si può notare, per rafforzare il concetto Barbano descrive spesso questo gruppo con tratti religiosi, scrivendo dei suoi «riti» e dei suoi «dogmi» e rimandando nel sottotitolo ai «professionisti del bene».

Verosimilmente, dietro don Ciotti non c’è alcun disegno organico, ma soltanto un’ideologica comunanza d’intenti. Che tuttavia incide parecchio. Non c’è da essere troppo allegri: arcaica la mafia, arcaica la Chiesa, arcaico il modo di affrontare il crimine affidandosi alla Chiesa.

A cominciare dal suo numero uno. All’inizio del suo pontificato, Bergoglio fu molto duro nei confronti della mafia. Come già Giovanni Paolo II, evocò la scomunica e suscitò tante speranze tra i suoi aficionados. Ma anche in questo caso il presunto grande rivoluzionario non si è rivelato nemmeno un piccolo riformista: tutto è ancora fermo al comitato che deve predisporre una proposta.

Nel frattempo, il contesto mondiale è molto cambiato: i narcos latino-americani sono oggi una realtà ormai più pericolosa delle organizzazioni italiane – eppure se ne parla enormemente meno, anche nella stessa Chiesa.

Resta il fatto che il Codice di diritto canonico continua a riservare la scomunica latae sententiae (la più grave, quella che si applica automaticamente per il solo fatto di compiere il peccato) a chi commette aborto, apostasia, eresia e scisma. Il genocidio non è contemplato: figuriamoci l’omicidio.

Il canone 1184 stabilisce che si possono privare delle esequie religiose i «peccatori manifesti»: ma è sufficiente che il sacerdote garantisca che si sono pentiti per tempo, e si può derogare senza problemi. Sono stati scomunicati i comunisti, non lo sono mai stati i mafiosi. La gerarchia ha le sue gerarchie.

E comunque: cosa cambierebbe, se entrasse in vigore tale scomunica? Nulla, probabilmente. Perché nessun problema è stato mai risolto formalizzando anatemi. Non spetta all’Uaar combattere la mafia. Ma creare le premesse per una politica e una giustizia basate sulle evidenze, quello magari sì.

Raffaele Carcano

 

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