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Luca riflessivo

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  • Di Luca riflessivo (---.---.---.200) 4 aprile 10:17

    Leggo con interesse questo articolo e la vivace discussione che ne è seguita. È evidente che il tema "Zona Bianca" e Testimoni di Geova tocca nervi scoperti. Da un lato, capisco la difesa della libertà di stampa e il diritto/dovere di indagare su realtà che possono avere lati oscuri, come sottolinea l’autore Mario Barbato. Nessuna organizzazione, religiosa o meno, dovrebbe sentirsi al di sopra di un esame critico. Dall’altro lato, però, non posso ignorare le obiezioni sollevate da doppio_max e altri. Quando si parla di "inchiesta giornalistica", l’imparzialità dovrebbe essere un faro. Se, come viene riportato, anche figure accademiche esterne percepiscono un tono diffamatorio e rifiutano di partecipare, qualche domanda sulla correttezza del format sorge spontanea. Non si tratta di negare i problemi (gli abusi, ad esempio, sono un dramma ovunque si verifichino, e doppio_max stesso non nega che casi esistano anche tra i TdG), ma di capire se l’obiettivo sia informare a 360 gradi o costruire una narrativa specifica. Mi colpisce il continuo riferimento a sentenze giudiziarie da entrambe le parti. Vediamo citate condanne (come quella di Ghent sull’ostracismo o i verdetti iniziali in alcuni casi di abuso), ma anche assoluzioni o vittorie in cause per diffamazione (come quella spagnola contro El Mundo, che sembra ridimensionare anche la questione australiana, o quella della Cassazione belga sull’ostracismo). Questo "ping pong" legale dimostra che la situazione è molto più complessa di come a volte viene dipinta in TV. Forse una trasmissione come "Zona Bianca" dovrebbe dare lo stesso peso a tutte queste sentenze, non solo a quelle che supportano una certa tesi? Riguardo alla mancata partecipazione dei TdG, l’articolo la interpreta come possibile paura. Ma se un interlocutore percepisce l’ambiente come ostile o prevenuto (giustamente o a torto che sia), è davvero così strano che scelga di non partecipare a quel specifico "processo mediatico"? Forse preferiscono altre sedi o modalità per far sentire la propria voce. In conclusione, credo che sia giusto chiedere trasparenza e indagare, ma è altrettanto giusto chiedere che l’informazione sia equilibrata, completa e non si trasformi in una campagna denigratoria basata su una selezione parziale dei fatti o su testimonianze non adeguatamente contestualizzate o bilanciate da controargomentazioni e fatti documentati (come le sentenze favorevoli citate). La verità raramente è tutta da una parte sola.


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