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Le catene del valore globali dopo la pandemia

“Attraverso le infrastrutture di comunicazione siamo riusciti ad accelerare (e quindi a trasformare qualitativamente) dei fenomeni che prima mettevano millenni ad accadere. Pensiamo al virus del morbillo: non era altro che una mutazione della peste bovina che si è trasmessa all’essere umano quando abbiamo iniziato ad addomesticare la mucca. 

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Il morbillo ha invaso il mondo camminando, a piedi. Pensiamo all’influenza spagnola, che un secolo fa ci ha messo ben due anni per diffondersi. Questa volta invece sono bastate un paio di settimane”: quanto dichiarato alla rivista francese Le Grand Continent da una scienziata di valore come Ilaria Capua in riferimento all’esplosività della diffusione globale del coronavirus[1] si può traslare alla discussione sulle conseguenze economiche del Covid-19[2].

Il virus, prima ancora che creare ex novo fattori di instabilità nell’economia, accelera e complica le tendenze già esistenti, funge da elemento di cesura. Per alcune settimane, la globalizzazione ha preso due strade divergenti. Da un lato, è accelerata nella sua componente immateriale, con le piattaforme tecnologiche, i social network e le aziende specializzate nell’elaborazione dati e nelle discipline più innovative[3] che hanno lavorato a pieno regime acquisendo ulteriore centralità nei sistemi produttivi. Dall’altro si è gradualmente paralizzata[4] sul fronte dei commerci internazionali e della produzione industriale, facendo emergere come preponderante il tema della gestione delle catene del valore.

Le catene del valore “globali” saranno al centro di numerosi discorsi di tema politico ed economico nella fase post-pandemica[5]: e anche qui notiamo come non ci si trovi di fronte a nuovi scenari aperti dalla pandemia, ma a un’accelerazione dettata dall’impatto del virus sugli equilibri globali. Questioni come la guerra dei dazi, la corsa globale agli investimenti esteri e lo sviluppo di forme di capitalismo “politico” da parte degli agenti nazionali nei settori strategici[6] avevano da tempo messo in discussione la stabilità dell’assetto delle filiere produttive su scala globale.

In fin dei conti, la stessa “globalizzazione” delle catene del valore, a lungo, non si è manifestata se non attraverso una corsa alla dispersione delle produzioni nell’inseguimento dei vantaggi competitivi sul costo del lavoro, il regime fiscale e l’attrattività agli investimenti da parte dei grandi gruppi multinazionali e in funzione della capacità di attrazione fornita da diversi governi. Eccezion fatta per settori molto rodati come quello automobilistico, e in diversi contesti anche al loro interno, le catene del valore sono state “globalizzate” nella misura in cui ben precisa rimaneva l’allocazione dei centri produttivi della massima quota di valore aggiunto, con comparti come l’elettronica, l’informatica, l’aeronautica e la cantieristica navale che hanno visto questi ultimi rimanere stabilmente nei Paesi di origine delle imprese che delocalizzavano.

Del resto, come ha fatto notare Giulio Sapelli in un editoriale su Il Messaggero, “la moneta simbolica creata dalle banche centrali e quella digitale originata dalle banche universali sulle scommesse dei derivati è l’unica merce che si sposta in tutto il mondo senza barriere e a costi di transazione tendenti allo zero[7]”. L’economista ed accademico torinese, su questo punto di vista, ha certamente ragione da vendere: la globalizzazione della moneta è stata sicuramente più accentuata di quella di produzioni industriali e merci. Essa, inoltre, ha favorito la regionalizzazione settoriale di diverse catene del valore (dalla manifattura automobilistica al settore tessile, dalla componentistica elettronica alla produzione di dispositivi medici) che, per la presenza predominante di capitali europei e statunitensi nelle imprese-guida, ha assunto la connotazione di una dispersione su scala mondiale della produzione.

La frontiera della dispersione è evoluta strada facendo al mutare delle condizioni di vantaggio competitivo o per la crescita del potere contrattuale dei Paesi destinatari della delocalizzazione: in una prima ondata la delocalizzazione raggiunse Cina, Turchia, Polonia, Romania; in un secondo momento estese il suo raggio al Bangladesh, la Nigeria, l’Etiopia, il Vietnam, il Pakistan.

Il modello che univa una moneta pienamente globalizzata a catene del valore disperse su basi regionali ben precise si è scontrato con la constatazione della natura strategica di molte filiere produttive e con la sistemica fragilità delle arterie che forniscono energia vitale a questo sistema. Debolezze accelerate dall’insorgere del contagio globale e dalla necessaria “pausa di riflessione” da produzioni industriali e scambi commerciali che vi ha fatto seguito. La pandemia, in questo senso, ha sciolto un nodo gordiano di fondamentale importanza per il capitalismo contemporaneo, accelerando la necessità di dare risposta a una situazione di difficile gestione. Come dovrebbero svilupparsi le catene del valore del post-pandemia? La risposta non è chiara in partenza, e sarà il frutto della sovrapposizione tra diverse tendenze politiche, economiche, strategiche e le nuove evoluzioni in materia di commercio internazionale.

Sapelli, ad esempio, ritiene che sia “questa discrasia tra super-globalizzazione finanziaria e semi-globalizzazione manifatturiera a creare le crisi mondiali[8]”, e perora un ampio accordo commerciale multilaterale che possa sdoganare anche la seconda faccia della medaglia; d’altro canto, l’evoluzione degli ultimi anni e gli sviluppi incentivati dalla pandemia hanno portato in campo tendenze a operare il reshoring delle attività produttive in diversi Paesi. Si pensi ad esempio al Giappone, che ha predisposto un fondo da 9 miliardi di dollari per riportare in patria produzioni e industrie gradualmente delocalizzate in altri Paesi, Cina in primis[9], incentivando una tendenza che per Amedeo Maddaluno, analista specializzato in questioni geopolitiche, stava già portando a un riflusso della globalizzazione nel corso degli ultimi anni, come dimostrato dalle politiche di reshoring che negli Usa l’amministrazione Trump[10] ha cercato di porre in essere[11]. Maddaluno ha scritto su Eurasia[12] che nei prossimi anni, tra Europa, Stati Uniti e Cina assisteremo alla contemporanea presenza di fenomeni eterogeni tra loro, con parte delle produzioni “riallocate in prossimità dei mercati finali di Usa e Ue”, altre “spostate verso paesi asiatici con manodopera più a buon mercato” e con la Repubblica Popolare intenta a presidiare al suo interno le filiere più strategiche. E se il Sars-Cov-2, “virus acceleratore” di dinamiche già in atto da diverso tempo, ha finito per rinfocolare le tensioni geoeconomiche, fungendo da “colpo di pistola di Sarajevo[13]” di una nuova fase di aspro confronto internazionale, è difficile che prendano corpo sia l’accordo multilaterale auspicato da Sapelli che la convergenza di dialogo e condivisione delle soluzioni alle problematiche economiche del mondo che Paolo Savona, con lucidità, ha scritto essere la soluzione maggiormente auspicabile per gli scenari odierni. In un editoriale per Il Sole 24 Ore il presidente della Consob ed ex ministro ha eloquentemente commentato: “I modi per affrontare la crisi sanitaria ed economica dovevano essere decisi cooperando a livello globale, ma questa è esplosa in un momento in cui le relazioni internazionali si trovano al minimo postbellico e post caduta del comunismo sovietico. Poiché si va affrontando la crisi produttiva sul piano nazionale, mentre la domanda esistente è globale, gli effetti deflazionistici saranno più gravi e certamente incideranno sugli equilibri geopolitici; i sintomi che questi sfocino in gravi tensioni tra paesi e aree geografiche sono già sotto i nostri occhi[14]”.

La chiave di lettura che spiega il fenomeno del “tiro alla fune” tra grandi potenze economiche, in apparenza contraddittorio, sta nel ritorno preponderante e tenace del primato della politica e della necessità, per Stati e blocchi economici, di pensare grandi strategie industriali[15]. Il reshoring e la ristrutturazione più accentuata delle catene del valore riguarderà, in altre parole, quei settori che i governi e i Parlamenti riterranno vitali per ragioni di sicurezza nazionale e il mantenimento equilibrio politico-economico (e occupazionale) interno. Tlc, energia, Difesa, aerospazio, elettronica, biomedicale, farmaceutico sono esempi di comparti di questo tipo, non a caso protetti in diversi contesti nazionali da discipline assimilabili al nostro golden power. La partita tra gli Stati, con la più importante disfida concentrata nel braccio di ferro Cina-Usa, sarà in questo caso legata alla corsa per posizionare all’interno dei propri confini le parti più appetibili in termini di dividendi e valore aggiunto delle catene del valore riportate sul suolo nazionale. Parlando del caso della politica industriale associata alle reti energetiche il consigliere regionale dell’Emilia-Romagna ed analista geopolitico Gianni Bessi ha dichiarato all’Osservatorio Globalizzazione che la sfida per chi giocherà queste partite, Italia compresa, “non potrà che passare dalla capacità di collocarsi come Europa e spero come Italia sul livello alto della catena del valore e quindi non potrà che essere tecnologica, digitale ma anche culturale e politica[16]”. La corsa globale ai vantaggi competitivi assumerà in questi ambiti una valenza sempre più politica, mettendo alla prova le capacità operative di governi ed apparati pubblici; negli altri settori meno presidiati le tendenze dei decenni passati potrebbero invece trovare spazio attraverso la crescita della dispersione globale (ma concentrata in aree regionali precise e vantaggiose per le imprese multinazionali) della produzione a minor valore aggiunto.

Anche nel comparto manifatturiero, industriale e commerciale, considerate le tendenze fin qui analizzate, ci troviamo di fronte alla possibilità di un mondo sempre più competitivo, in cui grandi strategie e politiche interne si sovrapporranno nel tracciare la rotta di sistemi-Paese decisi a proteggere filiere e quote di produzione; la “sospensione” della globalizzazione ne prefigura dunque una sua graduale e sistematica evoluzione e, sullo sfondo, la grande sfida Stati Uniti-Cina condizionerà e distorcerà entrambe le tendenze di cui abbiamo parlato. A trovarsi a metà del guado è un’Europa che deve iniziare a pensare a livello sistemico e in termini geopolitici e geo-economici: essere competitivi nelle catene del valore del futuro vorrà dire saper padroneggiare le sfide della rivoluzione tecnologica e stimolare innovazione, per poi metterla al servizio del rilancio manifatturiero del Vecchio Continente e della competitività dei suoi Paesi. Una sfida ardua, per affrontare la quale converrà superare la deflazione interna dell’Unione in maniera definitiva. Anche queste tendenze sono accelerate dalla pandemia che ha posto la globalizzazione di fronte alle sue asimmetrie. Chiamando i suoi attori a un cambio di passo.


[1] Raffaele Alberto Ventura, “Face à la catastrophe en Lombardie”, une conversation avec la virologue Ilaria Capua, Le Grand Continent, 19 marzo 2020.

[2] Continuamente aggiornata è sul tema degli impatti globali del Covid-19 la reportistica fornita dalla società di consulenza McKinsey.

[3] Andrea Muratore, Ecco come cambierà l’economia dopo il coronavirus,Inside Over, 9 aprile 2020.

[4] Brian Cepparulo, Le conseguenze economiche del Covid-19: che ne sarà della globalizzazione?,Osservatorio Globalizzazione, 20 giugno 2020.

[5] Queste e altre considerazioni di seguito riportate riprendono e aggiornano quanto già scritto in Andrea Muratore, La globalizzazione “schmittiana” dopo la crisi pandemica, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici, Anno XVII, Numero 3, luglio-settembre 2020, pag. 121-126.

[6] Fondamentale sul tema Alessandro Aresu, Le potenze del capitalismo politico. Stati Uniti e Cina, La Nave di Teseo, Milano 2020.

[7] Giulio Sapelli,Oltre l’effetto Wuhan/ L’economia globale era già in crisi, ora cambierà, Il Messaggero, 4 marzo 2020.

[8] Ibid.

[9] Hisao Kodachi, Japan to help bring home factories that left after 2011 disaster, Nikkei Asian Review, 25 marzo 2020.

[10] Ed Yardeni,Trump wants jobs coming back to the U.S. from China — but companies and consumers might disagree, Market Watch, 22 giugno 2020.

[11] Andrea Muratore,“L’ambiente ha bisogno di scelte ragionevoli”, Inside Over, 16 novembre 2019.

[12] Amedeo Maddaluno, L’alba di un nuovo bipolarismo, Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici (edizione web), 4 maggio 2020.

[13] Fabrizio Maronta, Il coronavirus e i mercati finanziari: siamo a Sarajevo 1914, Limes, 18 marzo 2020.

[14] Paolo Savona, Nuove relazioni internazionali per superare la crisi finanziaria, Il Sole 24 Ore, 24 marzo 2020.

[15] Di questi temi si è parlato in due precedenti saggi per Econopolyde “Il Sole 24 Ore” cfr. Ivan Giovi, Andrea Muratore, Perché il rilancio del Paese passa dalla politica industriale,Econopoly, 25 giugno 2020 e Ivan Giovi, Lucio Mamone, Andrea Muratore, Il grosso problema dello Stato minimo con l’economia di mercato, Econopoly, 8 luglio 2020.

[16] Andrea Muratore, Le nuove sfide della politica industriale italiana, Osservatorio Globalizzazione, 11 luglio 2020.

 

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