Laicità, questa tiranna!
La Cassazione conferma l’iscrizione di un minore a una scuola cattolica nonostante il dissidio tra genitori. Una decisione controversa sul fronte della laicità e della libertà religiosa, spiega la responsabile iniziative legali Uaar Adele Orioli sul numero 4/2024 di Nessun Dogma. Per leggere la rivista associati all’Uaar, abbonati oppure acquistala in formato digitale.
Una recente ordinanza della Cassazione ha avuto modo di chiudere definitivamente una vicenda passata attraverso tutti i gradi di giudizio e anche gli onori della cronaca, interpretando en passant anche sotto particolare luce il principio di laicità dello Stato. Ma andiamo con ordine.
Il contenzioso nasce nel contesto di una causa di divorzio fra due genitori, entrambi con potestà genitoriale: la madre ottiene con ricorso d’urgenza al tribunale di Milano l’iscrizione, anche senza il consenso del padre, del figlio minorenne al ciclo di scuola secondaria di primo grado (le medie dei vecchi tempi, insomma) presso l’istituto paritario cattolico già frequentato per il ciclo precedente.
L’autorizzazione argomentava, a dir la verità, anche che la decisione avrebbe dovuto essere sempre a favore dell’istruzione pubblica, salvo accordo fra genitori, in questo caso mancante, o interesse preminente di altra natura del minore che era invece presente. Continuità e stabilità del percorso scolastico, presenza di amici, buon rapporto con gli insegnanti integrano per il tribunale elementi sufficienti per concedere con ordinanza quanto richiesto.
Dello stesso parere anche la Corte d’appello che ha rigettato il reclamo proposto dal padre, sulla base ulteriore dell’audizione del minore stesso, favorevole a continuare gli studi nell’istituto privato, nonché di una relazione psicodiagnostica che evidenziava il bisogno del bambino/ragazzo di stabilità.
Il ricorso del genitore contrario in Cassazione e che conclude, solo giuridicamente, la questione, lamenta quindi la violazione di numerose norme tanto costituzionali quanto della Carta europea dei diritti umani. Da un lato lo svilimento della laicità delle scuole pubbliche, poiché l’autorizzazione concessa riguarda l’iscrizione a un istituto di matrice cattolica, dall’altro la violazione della libertà religiosa del minore, data la coazione verso una sola determinata confessione.
In una questione poi così determinante e decisiva per la crescita del figlio, il padre contesta anche l’eccessivo peso dato alle intenzioni e volontà del figlio stesso.
Prima di venire alla decisione della Suprema corte che come era intuibile ha rigettato il ricorso confermando tutte le decisioni precedenti, occorre per onestà ammettere alcune specificità del caso in questione. Non sappiamo se i genitori in conflitto si siano sposati in chiesa (impegnandosi formalmente a educare cristianamente la prole) o se il figlio sia stato a suo tempo battezzato (e quindi fatto membro della Chiesa, membra di Cristo e suddito e sottomesso delle gerarchie ecclesiastiche).
Probabilmente sì, dovessimo scommettere. Di sicuro ha già frequentato cinque anni in una scuola cattolica con l’accordo di entrambi: il che non significa certo che ci sia una condanna a vita (perlomeno non da quando esiste lo sbattezzo) o che non si possa come genitori ricontrattare l’accordo educativo sulla propria prole. Significa però anche che, secondo legislazione e giurisprudenza ad ampio raggio, si debba primariamente guardare all’interesse del minore.
E persino a prescindere dal favor religionis che sicuramente permea altrettanto ad ampio raggio le nostre istituzioni, è assai probabile che per il ragazzino fosse preferibile e meno traumatico ritrovare i compagnucci e le insegnanti nello stesso ben conosciuto ambiente del quinquennio precedente, piuttosto che ergersi baluardo di un inusitato scatto di orgoglio della laicità pubblica, magari subito prima di andare a catechismo in oratorio perché è grosso modo l’età della cresima. Chissà se lo stesso padre conosce il celeberrimo scritto che paragona i bambini alla cera per sigilli.
Comunque, con tutte le opportune premesse, perché si concorda sul fatto che a maggior ragione in un sistema codicistico e non di common law come il nostro i principi seppur supremi non si possano usare come mannaie aprioristiche, persino quando lo si vorrebbe, veniamo alle argomentazioni della Cassazione che, seppur non legge, forniscono pur sempre autorevolissimo precedente interpretativo.
E anche qui la Corte, ricordando sue precedenti pronunce (Cassazione, numero 21553/21; numero 6802/23) ribatte come l’unico criterio guida sia l’interesse del minore, enucleato in questo caso dal diritto a stabilità e continuità senza fratture ulteriori rispetto alla già traumatica separazione dei genitori. Secondo la Corte europea dei diritti umani, poi, il coinvolgimento del minore in una pratica religiosa scelta da uno solo dei genitori «non costituisce discriminazione se funzionale a preservare il superiore interesse del minore». Ci permettiamo di dubitarne, ma tant’è. Almeno fino a quando il coinvolgimento è nella non pratica di una non pratica religiosa, a quanto pare.
L’ordinanza conferma la legittimità della “recessività” dell’esigenza di garantire la piena libertà di credo religioso rispetto alla superiore esigenza di soddisfare i desideri del minore stesso per «garantirne la crescita equilibrata e stabile». Letta così non suona benissimo… La Cassazione per quanto indirettamente conferma come l’iscrizione a un istituto religioso sia una violazione della libertà di religione del bambino, ma la ritiene di minore importanza rispetto a quanto vuole il bambino stesso. Una crescita equilibrata senza libertà religiosa. Ok.
Infondato anche il secondo motivo di ricorso: la laicità del nostro ordinamento costituzionale è proprio quel principio che «esprime, di fatto, un plausibile bilanciamento dello stesso con i principi di rango costituzionale afferenti alla cura e alla tutela dei minori in ogni loro declinazione». In teoria la storia del principio fondamentale dell’ordinamento una volta voleva dire fosse imprescindibile criterio ermeneutico, non che veniva buttato nella mischia con tutto il resto per un “plausibile” (= accettabile sul piano logico: ma non era di fatto?) zero a zero palla al centro.
«In conclusione – ci dice la Cassazione – il detto principio di laicità non può essere invocato in termini assoluti, né esso può assurgere a valore tiranno, rispetto ad altri, pure in gioco, la cui portata è stata legittimamente limitata in ragione della tutela degli interessi del minore».
Ma che cosa sarebbe quindi, questa laicità, principio di oscura natura, principio nel senso che siamo ancora all’inizio, per citare la battuta di un quotato docente di diritto ecclesiastico. Di sicuro è curiosamente invocata, e aggettivata di conseguenza (buona, sana, vera…) quando si tratta di garantire spazi di libertà religiosa attiva e confessionale; di contro è negletta, cattiva e “recessiva” e da pretermettere quando è da una appartenenza religiosa che si vuole libertà. Trascurabili in questo caso le sue violazioni.
Tutto ciò non vuol dire che, anche interpretandolo correttamente come criterio guida, sarebbe stato inevitabile l’obbligo alla scuola pubblica del caso concreto, del quale peraltro come detto ignoriamo dettagli fondamentali per definire il contesto reale. Ma che almeno per un attimo le due alternative venissero considerate “plausibili”: questo sì.
Adele Orioli
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