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La scuola laica alla prova dell’islam

Diversi musulmani si lamentano di essere trattati diversamente dagli altri. Ma è lungo, troppo lungo l’elenco delle situazioni in cui, sempre più spesso, sono proprio fedeli musulmani a voler essere trattati diversamente – specialmente a scuola. Se vogliamo limitarci ai casi più eclatanti, questo è il cahier de doléances:

• abbigliamento connotato religiosamente
• rifiuto di svolgere attività ritenute haram (ginnastica, nuoto, musica)
• richiesta di menù differenziati a mensa
• aperta contestazione di insegnamenti sgraditi
• interruzione dei minuti di silenzio
• ostentata apologia di terroristi
• atti di bullismo ‘religioso’ nei confronti dei coetanei
• rifiuto di stringere la mano o di rivolgere la parola a insegnanti donne
• proselitismo da parte del personale

La buona notizia è che non tutti si comportano così. Anzi, a comportarsi così sono soprattutto gli islamisti o i loro figli, che vogliono una società a propria immagine e somiglianza. Quelli che non la pensano così non sono pochi, e sono la nostra speranza. Ma possono esserlo soltanto se capiranno che anche noi possiamo essere la loro speranza.

L’école laïque, 2020

Occhio non vede, cuore non duole. Gli inglesi pensano di risolvere ogni problema mandando i figli di musulmani in scuole musulmane: munificamente finanziate dallo stato, ma quasi sempre incapaci di garantire gli standard minimi richiesti (e spesso addirittura illegali). Gli altri europei, perlomeno quelli occidentali, accolgono quasi puntualmente ogni richiesta di fare un’eccezione alla regola. La Francia, stato laico per antonomasia, dovrebbe invece rappresentare il punto di riferimento della regola stessa. Come se la passa, oltralpe, la scuola pubblica e laica?

Male. E per venirlo a sapere non c’era bisogno della decapitazione del professor Samuel Paty, della legion d’onore conferitagli post mortem, del solenne omaggio che ha ricevuto alla Sorbona e dell’impegno assunto dal presidente Macron: «continueremo la sua battaglia per la libertà». Ma la sua morte può rappresentare l’evento in grado di mettere finalmente a nudo le enormi questioni che sono state accantonate per decenni anche in Francia.

Sono ormai diciotto anni che un collettivo di professori ha scritto il libro Les Territoires perdus de la République, dedicato alla secessione di fatto di molti quartieri periferici, dove lo stato di diritto è ormai solo un vago ricordo. E ne sono passati sedici, da quando l’ispettore generale dell’istruzione Jean-Pierre Obin lanciò l’allarme, ma il suo rapporto è rimasto largamente lettera morta. Il risultato è che oggi un terzo dei casi controversi si registra già alle elementari, e più di un terzo degli insegnanti (la maggioranza nei quartieri a rischio) si autocensura per evitare problemi. Del resto, perché mai si dovrebbe rischiare la pelle, quando i dirigenti scolastici sono così solerti nel rimbrottarti («pas de vague!») per aver suscitato malumori potenzialmente pericolosi? Tanto chi la noterà mai, la soppressione di un argomento compreso nel programma scolastico? Ma perché gli stessi dirigenti dovrebbero rivelarsi più coraggiosi, quando le autorità non reprimono le intimidazioni e i veri e propri ricatti, quando la polizia non trova sempre il coraggio di avventurarsi nelle zone a rischio?

L’onda negativa viene del resto da lontano, da quando diversi sostenitori della scuola pubblica e laica hanno cominciato a subire il fascino del postmodernismo alla Michel Foucault (uno che nel 1978 si esaltava per la rivoluzione islamica in Iran). Si è rapidamente diffuso un estremismo multiculturalista che si è tradotto nell’ossessivo tentativo di silenziare, con l’accusa di “razzismo”, qualunque critica a esponenti di minoranze ritenute sotto attacco – incluso l’islam, che una razza sicuramente non è. Lo stesso Osservatorio della laicità, anziché difenderla, si è più spesso dedicato a lottare contro i presunti “islamofobi”, finendo per agire in sinergia con organizzazioni integraliste. Si assiste ormai a un’autentica spaccatura nel mondo progressista tra chi rivendica l’eguaglianza e chi appoggia le identità particolari, anche le meno democratiche. L’inevitabile conseguenza è che persino un giornale di sinistra come il Charlie Hebdo finisce per essere giudicato di estrema destra (anche perché l’estrema destra lo celebra strumentalmente molto più di quanto lo faccia certa sinistra).

La medesima frattura attraversa il mondo dell’istruzione. Come sostiene un insegnante intervistato proprio dal Charlie Hebdo, «è lo stesso sistema scolastico ad aver educato i giovani con una forma di antirazzismo che ha avuto il sopravvento sulla libertà di espressione». Una larga maggioranza dei francesi si è dichiarata favorevole alla ripubblicazione delle vignette su Maometto, ma quasi un giovane su due pensa che il giornale abbia sbagliato (e ancor più abbia sbagliato anche la sedicenne Mila, ancora oggi sotto protezione). Già cinque anni fa un quarto dei liceali non condannava in toto lo sterminio della redazione – ed erano quasi la metà, tra quelli musulmani.

Il mondo islamista ha saputo sfruttare abilmente sia questo cambiamento di mentalità (che non è soltanto francese, e che trova il massimo della sua espressione nei “fatti alternativi” raccontati dal New York Times), e nello stesso tempo si impone come dirigenza “di fatto” delle comunità musulmane. Si spera che la scoperta della vastità della rete che ha generato l’escalation culminata nella decapitazione di Samuel Paty abbia definitivamente fatto evaporare il mito dei “lupi solitari”. Ma ha anche riproposto il sempiterno dilemma: quanto è moderato, l’islam moderato? Poco, purtroppo troppo poco.

L’agenda islamista è del resto pompata dai petrodollari dei paesi arabi (persino la più importante squadra di calcio francese, il Paris Saint-Germain, è di proprietà qatariota) e dalla stessa Organizzazione della cooperazione islamica (l’unione internazionale degli stati a maggioranza musulmana). La cui strategia dichiarata, nero su bianco, è di «costruire la personalità dell’essere musulmano» e fornire protezione contro «l’invasione e l’alienazione culturale», «garantendo la sicurezza culturale e l’immunità necessarie per lo sviluppo della personalità del musulmano».

Anche all’interno delle comunità islamiche europee, i diritti umani sono spesso definiti «una creazione occidentale». Farsi crescere la barba è apprezzato, rifiutare il velo è stigmatizzato. L’intimidazione è frequente sia verso chi ne fa parte, sia verso chi non ne fa parte, e non si azzarda quindi a entrare in quartieri ormai monoconfessionali. Ci sono, è vero, imam molto più aperti (come quello di Drancy, Hassen Chalghoumi), ma si ritrovano minacciati dai loro stessi correligionari. Nemmeno l’ultimo attentato sembra peraltro aver cambiato le cose: una diciannovenne ha scritto che Paty «meritava di morire» ed è stata condannata per apologia del terrorismo, mentre sette allievi sono stati fermati per aver minacciato un’insegnante che, in un liceo di provincia, voleva affrontare in classe il tema del velo.

Se l’islam è un problema, a scuola sembra dunque esserlo ancora di più. E dire che proprio l’istruzione rappresenta per chiunque la miglior chance disponibile per aspirare a un futuro migliore. Ma sembra che non ci sia questa ambizione, tra le famiglie più estremiste. Si stima che siano ormai 50.000 gli studenti in homeschooling (figuriamoci con quale profitto). Il governo vorrebbe abolirlo, ma l’effetto più probabile sarebbe un loro passaggio alle scuole private, che in Francia sono il doppio che in Italia e sono quasi tutte cattoliche. Con quali benefici per la diffusione dello spirito laico, ognuno può immaginarlo.

La scuola laica, circa 2100

Sul tappeto ci sono dunque problemi giganteschi, che per essere risolti (se si riusciranno a risolvere) hanno bisogno di diversi decenni di intenso lavoro.

Al momento, le istituzioni francesi sembrano puntare soprattutto sui buoni modelli. Non solo sul «martire» Samuel Paty, ma anche, per esempio, su uno studente dodicenne di colore che si è dichiarato pubblicamente ateo (con tutti i rischi del caso). Nel frattempo la popolazione è sempre più apprensiva: l’87% dei transalpini ritiene che la laicità sia in pericolo. In otto su dieci pensano inoltre che sia giustificato mostrare le caricature in classe. Condividiamo a nostra volta, così come condividiamo la decisione delle amministrazioni locali di Montpellier e Tolosa di proiettare le vignette sugli edifici pubblici. Bisogna però essere consapevoli che la sfida è durissima: così facendo, gli islamisti si arrabbieranno ancora di più, anzi, si arrabbierà qualunque integralista, perché gli integralisti sono i numeri uno dell’antilaicità – qualunque sia il loro paese, qualunque sia la loro religione. E gli integralisti sono tanti, anche all’estero: quanto è disposta, la Francia, a mettere a repentaglio i suoi interessi economici nei paesi dell’Oci?

A meno che non voglia rinchiudersi in un proprio ghetto laico, che sarebbe anche contraddittorio, l’unica strada che può creare la Francia è quella di creare una netta spaccatura tra musulmani moderati e musulmani integralisti: i primi devono essere liberi di vivere l’islam in maniera moderata, ai secondi deve essere negata ogni collaborazione istituzionale. Nessuna agevolazione, finanziamento, eccezione, favore per l’islam estremista, quindi, e per qualunque altro estremismo.

Si dovrebbe compiere una colossale opera di persuasione intellettuale affinché il maggior numero di musulmani comprenda che, anche se dà fastidio ricevere insulti, anche gli altri li ricevono, e davanti alla legge sono trattati allo stesso modo. Anche gli atei ricevono insulti, infatti, e non solo dai musulmani (papa Francesco docet) – anzi, dagli islamisti ricevono spesso anche concrete e plausibili minacce di morte. Una rigorosa applicazione dell’uguaglianza in materia di libertà di espressione è ormai indispensabile, e ci si può arrivare: in fondo, anche nel mondo arabo si scherza spesso nei confronti dei jihadisti – pur correndo, ovviamente, anche qualche pericolo.

È un passaggio inevitabile che aiuterà a conseguire il secondo grande obbiettivo che lo stato francese si dovrebbe porre: terminare il condizionamento di stampo mafioso imperante in molte banlieues. Soltanto in questo modo si farà terra bruciata intorno agli islamisti. La repubblica deve riconquistare al più presto i suoi territori perduti.

Il beneficio per gli istituti scolastici sarà inevitabile, perché non si respirerà più l’aria malsana di troppi quartieri, e anche nelle famiglie più sensibili alla radicalizzazione si comincerà a insegnare ai figli a non esporsi troppo. In tal modo si creeranno le condizioni affinché quello dell’insegnamento sia un luogo quanto più neutrale possibile: dove far conoscere i valori di ogni concezione del mondo, ma tenendo ben presente che ci si va per imparare, non per pregare o manifestare la propria fede. Soprattutto, sarebbe una scuola di tutti, in cui si apprende (anche) a convivere con il pluralismo, un luogo dove insegnare a chiunque le regole fondamentali della convivenza educando a rispettarle, anche attraverso la filosofia con i bambini. Un percorso per diventare futuri cittadini.

Certo, non tutte le situazioni elencate all’inizio sono facilmente risolvibili. Ma è lecito pensare che siano problematiche soprattutto a causa degli islamisti. E vanno risolte facendo inequivocabilmente capire che i figli non sono di proprietà dei genitori e che lo stato agisce per il bene dei minorenni, qualunque dogma abbiano i loro genitori fanatici. Qualcuno ricorrerà al vittimismo, qualcuno fomenterà gli ambienti radicali all’estero, qualcun altro invece ringrazierà – anche nel mondo arabo, dove aumentano i giovani stufi della cappa islamista.

Di proposte ve ne possono ovviamente essere anche altre, per convivere con l’islam. L’importante è non smettere di cercarle, altrimenti si resta fermi al punto di partenza o si finisce ancora più indietro. Quel che va evitato è di creare un islam di stato: chi lo gestirebbe sarebbe facilmente additato come traditore da chi ama presentarsi come un campione di purezza. Estirpare l’islam, poi, come qualcuno pensa (anche tra chi ha una “fede” atea) non solo non è praticabile, ma è la negazione completa dei valori su cui si basa la Francia stessa.

La scuola di tutti è l’unico orizzonte possibile per creare un mondo migliore di quello attuale. Non è un obiettivo soltanto francese, dunque. È uno sforzo planetario, quindi titanico. Ma non è un’utopia. Buon 2100 a chi ci sarà.

Raffaele Carcano

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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