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La ragione a testa in giù. Intervista a Guido Viale su alimentazione ed economia

Guido Viale, leader nel ‘68 della protesta studentesca ed ex-dirigente di Lotta continua, è membro del Comitato tecnico-scientifico dell’Agenzia nazionale per la protezione dell’Ambiente (ISPRA). Collabora con Repubblica e il manifesto.

Entriamo subito in argomento: oggi nel mondo c’è un problema alimentare?

Be’ certo, c’è da tantissimo tempo e mi pare che si stia aggravando piuttosto che assottigliarsi. Il numero delle persone che soffrono la fame, secondo la FAO, è aumentato negli ultimi anni.

Ma è un problema che riguarda solo il cosiddetto “sud del mondo”, o anche il nord?

Innanzitutto è sempre più difficile distinguere in maniera netta il sud dal nord, perché in molti Paesi emergenti del sud del mondo c’è ormai una classe dirigente e perfino un “embrione” di ceto medio che vive secondo gli standard occidentali, mentre nei Paesi che una volta costituivano il “primo mondo”, cioè il mondo occidentale capitalistico, esistono oggi sacche di miseria e di indigenza che sono anche peggiori di quelle che patiscono molte popolazioni del cosiddetto “terzo mondo”. Per esempio, oggi in Grecia ampie fette di popolazione sono costrette a rimestare nei cassonetti alla ricerca di cibo: attività che è sempre stata caratteristica dei barboni, e che oggi coinvolge famiglie intere, genitori alla ricerca di qualcosa da mangiare per i figli. Siamo arrivati a questo; frutto anche della politica europea di austerità applicata a quei Paesi. Ma lo stesso si può dire degli Stati Uniti, il Paese più ricco del mondo, dove un quinto della popolazione vive in condizioni di povertà relativa o soffre letteralmente la fame.

Com’è invece la situazione in Italia?

In Italia, come in tutti i Paesi non solo occidentali, c’è uno spreco di cibo gigantesco: si calcola che fino a un terzo del cibo comprato finisca nella spazzatura. Non c’è ancora un problema di fame diffuso, ma sicuramente all’interno di molte famiglie che sono state colpite pesantemente dalla crisi ci sono regimi di sottoalimentazione o comunque di deterioramento degli standardi alimentari molto forti.

Abbiamo del resto nei Paesi ricchi un problema di sovralimentazione, da un lato; di cattiva alimentazione, dall’altro. Nessuna legge a tutela dei consumatori pare in grado di risolvere questi problemi. C’è forse bisogno di una mentalità diversa?

È difficile uniformare le mentalità degli uomini di tutto il mondo; ma d’altro canto questo obiettivo non sarebbe neanche auspicabile, perché in ogni Paese il problema alimentare si pone in maniera specifica e peculiare. Tanto per cominciare, va considerato che il problema mondiale dell’alimentazione non è che vi sia poco o troppo cibo, bensì che questo venga distribuito male, in base a logiche di mercato e non di fabbisogno umano. Attualmente le forniture di cibo arrivano dove c’è una domanda solvibile e non dove c’è un bisogno di alimentazione. Il fatto che al mondo vi siano 800 milioni di obesi e, al contempo, circa lo stesso numero di persone che soffrono la fame, è una testimonianza eloquente e immediata di questo squilibrio. A ciò si aggiunga che l’obesità non sempre è frutto di alimentazione eccessiva, ma sovente dipende da una cattiva alimentazione.

Cioè?

Il sistema alimentare mondiale (si tenga presente che sono pochissime le società multinazionali che controllano il mercato della produzione e della distribuzione del cibo a livello planetario) tende a mettere in circolazione alimenti a basso prezzo caratterizzati da un eccesso di grassi e di zuccheri, che attirano principalmente persone a basso reddito. Oggi siamo di fronte a un curioso (ma rivelatore) rovesciamento del detto tradizionale per cui al povero tocca “stringere la cinghia”: una volta i poveri, sottoalimentati, erano magri, mentre i ricchi erano grassi; oggi è vero il contrario: i ricchi hanno la possibilità di alimentarsi in maniera corretta, calcolata scientificamente, mantenendosi in forma, mentre i poveri, attratti dal cibo economico e scadente, finiscono per ingrassare oltre misura.

Che ne è, alla luce di queste considerazioni, dei propositi istituzionali di eliminazione della fame nel mondo?

L’obiettivo del millennio era il dimezzamento del numero di persone che soffrono la fame entro il 2015. Da allora, cioè dal 2000, questo numero non è certo diminuito, anzi. Da questo punto di vista si registra dunque un fallimento completo. Ma la cosa più grave è che le derrate alimentari, nel corso dell’ultimo decennio, sono entrate sempre più nel sistema finanziario internazionale, diventando così oggetto di speculazioni finanziarie come quelle dei cosiddetti derivati, futures, ecc. Questo tipo di operazioni, effettuate su larga scala, possono provocare non soltanto un già di per sé pernicioso aumento dei prezzi, ma vere e proprie carestie. È in queste condizioni, tanto per dirne una, che è cominciata la “primavera araba” in Tunisia. Torniamo al problema di prima: un mercato alimentare mondiale completamente in mano a pochissime società di dimensioni gigantesche, gestito da un mercato finanziario in grado di ridurre alla fame intere popolazioni con un semplice clic su una tastiera… non può che produrre questi risultati.

Più in particolare sembra che in Occidente il problema alimentare si ponga su due questioni fondamentali: da un lato, un eccessivo consumo di carne; dall’altro, intere coltivazioni destinate ai biocarburanti. Un problema etico, ancor prima che socioeconomico.

Certamente si tratta di un problema etico: anche qui la precedenza viene data non ai bisogni della gente, ma alle esigenze di quegli operatori economici che possono permettersi di pagare più degli altri. È il fenomeno del cosiddetto “land grabbing” di cui è vittima il Sud America ma soprattuto l’Africa: le terre vengono letteralmente svendute ad operatori economici di altri Paesi (le solite multinazionali), le quali - una volta entrate legalmente in possesso del territorio - non si fanno scrupolo di cacciar via intere popolazioni che vi risiedevano magari da secoli sopravvivendo grazie a un’agricoltura di sussistenza. Perfino alcuni Paesi dell’est europeo vi sono soggetti.

È questo il frutto “razionale” del capitalismo? Pare che dovunque passi il capitale, diventi tutto improvvisamente problematico e caotico. Cioè: irrazionale.

Si può anche metterla così, in un certo senso. Resta da capire attraverso quale meccanismo si passi effettivamente dalla razionalità della matematica macroeconomica all’irrazionalità degli esiti reali. La razionalità capitalistica è una razionalità strumentale, che ha come unico fine quello di massimizzare i profitti, passando sopra a tutto e tutti: in questo senso il capitalismo è e rimane razionale. C’è da chiedersi se una tale razionalità sia davvero buona per l’uomo, di fronte a un’esperienza ormai pluridecennale che ha mostrato come questo sistema finisca per premiare gli speculatori finanziari, riducendo la gente alla fame.

Ciò nonostante il capitalismo pare non aver rinunciato a promettere abbondanza e ricchezza per tutti.

Forse qualcosa al riguardo è cambiato: prima della crisi si parlava ancora nei termini di questo pensiero unico per il quale il capitalismo avrebbe esteso - prima o poi - il benessere e il progresso a tutti gli uomini; oggi domina invece la paura, la paura del fallimento, del disastro. Oggi non si dice più che le regole del mercato vanno seguite perché sono il meglio che vi sia al mondo; si dice al contrario che non vi sono alternative e che non resta che seguirle per scongiurare un disastro maggiore. Nel giro di pochi anni sono dunque passate dall’essere “il meglio” all’essere “il meno peggio”. Può sembrare poco, ma è invece qualcosa di molto rilevante.

È insomma la solita sindrome T.I.N.A.: There Is No Alternative.

Certo: è questo il succo della cultura capitalistica in questa sua fase finanziaria. In altre epoche, infatti, è stato diverso: come ad esempio nei cosiddetti “trent’anni gloriosi”, quelli immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, dove il capitalismo in qualche modo ha operato davvero apportando benessere ad ampie fasce della popolazione occidentale. Oggi nessuno dei governi di quegli stessi Paesi potrebbe dire, similmente, che il capitalismo porterà benessere: al contrario, tutte le riforme in direzione dell’austerità vengono motivate dalla paura del default (visto come la catastrofe).

Dovremmo dunque cedere e credere a questo pensiero unico?

Certamente no; d’altro canto non basta pensarla diversamente per incidere di fatto su questi meccanismi. Ribellarsi all’alta finanza non è una cosa semplice; c’è bisogno, sì, di cultura, ma anche di organizzazione, strumenti e controllo, soprattutto, da parte dei governi, a partire da quelli locali (municipi) fino a quelli nazionali e sovranazionali.

C’è forse qualche Partito in Italia o in Europa che sia sensibile a queste tematiche? Pare che non ne parli nessuno.

In Grecia c’è il Partito Syriza che è passato da percentuali infime di consenso ad essere il secondo partito greco e - secondo i sondaggi - aspira ad essere addirittura il primo alle prossime elezioni, che si fonda proprio su questi principi ed è in cerca di alleanze in Europa per costruire una lista europea unitaria alle prossime elezioni. Il punto fondamentale è la rinegoziazione dei trattati internazionali di austerity che hanno condotto all’attuale situazione di difficoltà. In Italia c’è il tentativo di costruire una lista unitaria che si appoggi a Syriza; tentativi simili sono presenti anche in Spagna e in Portogallo e, a quanto mi risulta, anche in Germania e in Francia.

Più precisamente, che si sta mettendo in gioco in Italia su questa linea?

Sta parlando con uno di loro (ride). Altri sono Barbara Spinelli, Andrea Camilleri, Paolo Flores d’Arcais, Marco Revelli, Luciano Gallino. Una lista in realtà ben più lunga (in parte pubblicata a metà gennaio da Repubblica) che vede il coinvolgimento di molti esponenti della sinistra estrema che preferiscono puntare in Europa a una lista unitaria svincolata dalle pressioni dei singoli partiti nazionali. Un’iniziativa che ovviamente non si rivolge solo alle tematiche dell’alimentazione, ma più in generale alla ridefinizione delle dinamiche e delle interazioni tra economia e politica.

Un’ultima domanda: come fare a spiegare ai propri bambini che non c’è mai stato tanto cibo al mondo, eppure non c’è mai stata tanta gente che muore di fame.

Bisogna cercare di spiegarlo in una maniera molto semplice: nel mondo di oggi il cibo, per poter essere mangiato, ha bisogno di essere comprato e venduto, perché le persone che possono vivere in autosussistenza coltivando il proprio campo sono sempre meno (un po’ perché sono sempre più, come abbiamo visto prima, quelli che vengono espropriati a favore delle grosse coltivazioni; un po’ perché sono ben pochi quelli il cui orto rende a sufficienza da sfamare l’intera famiglia e al contempo procurarsi tutto il resto che serve per vivere, dai vestiti al denaro per i servizi fondamentali). Tutto il resto del cibo è in mano ad aziende enormi che comprano il cibo a bassissimo prezzo da chi lo produce e lo rivendono ad altissimo prezzo a chi se lo può permettere. Chi è fuori da questi circuiti, semplicemente, non mangia.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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