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La passione del ministro Valditara per la scuola paritaria

Ha un chiodo fisso il ministro dell’Istruzione e del Merito, e non si può dire che in questi mesi non si sia speso per tradurlo in realtà: «Rendere effettivamente pubblica tutta la scuola italiana». 

Peccato che con questo bel proposito il ministro non intenda l’espropriazione di edifici e locali scolastici di proprietà religiosa ma al contrario la sempre più ingente sottrazione di risorse alla scuola pubblica e la loro destinazione alle scuole paritarie, al punto da far titolare ad Avvenire, quotidiano dei vescovi: La svolta. Il 2024 sarà l’anno della parità scolastica?.

Ma quali sono i provvedimenti che hanno acceso le speranze di Avvenire e di tutte le organizzazioni del settore paritario?

Il primo seme il ministro lo ha piantato nella legge di bilancio dello scorso anno con uno stanziamento aggiuntivo alle scuole paritarie di 20 milioni di euro per il 2023 e 110 milioni di euro dal 2024 (di cui 70 per le esigenze degli alunni con disabilità). «All’Italia serve una scuola pubblica che faccia sintesi tra la scuola statale e la scuola paritaria», ha spiegato Valditara. «Un modello integrato nel quale allo Stato spetta il compito di mettere a disposizione un sistema pubblico di istruzione, ma il diritto di educare resta in capo ai genitori, come dice l’articolo 30 della Costituzione».
Peccato che l’articolo in questione si limiti a stabilire che «è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio» e che invece al ministro non interessi alcunché del già tanto calpestato articolo 33, il quale detta il ben noto principio del «senza oneri per lo Stato».

Altro che senza oneri! Al fiume di denaro della legge di bilancio si sono aggiunti quest’anno due nuovi affluenti: i 750 milioni di euro di fondi Pnrr per potenziare l’insegnamento delle materie Stem (Scienze, Tecnologia, Ingegneria e Matematica) e multilinguistiche, alla cui ripartizione potranno partecipare anche le scuole paritarie del primo e del secondo ciclo di istruzione; e i 3,8 miliardi dei Fondi Pon per la programmazione 2021-2027, che saranno distribuiti anche alle scuole paritarie. Perché, per dirla con le parole del ministro, che in questi mesi ha ripetuto il suo mantra “paritario” ogni volta che ne ha avuto occasione, «il sistema pubblico di istruzione è unico e comprende anche le scuole paritarie».

Affermazione mistificatoria, perché reinterpreta il «sistema nazionale d’istruzione» richiamato in apertura della famigerata legge 62/2000 sulla parità: se sono scuole private allora non sono pubbliche, anche se sono private paritarie. Pubbliche sono le scuole statali e quelle degli enti locali. Ed è grave che il ministro dell’Istruzione, anche se non più della “Pubblica Istruzione”, veicoli queste falsità.

Quello di Valditara è un desiderio, in direzione del quale sta appunto alacremente lavorando.

L’ultimo colpo assestato è stato l’equiparazione, ai fini dell’abilitazione, del servizio prestato nelle scuole paritarie a quello prestato nelle scuole statali. «In questo modo – ha spiegato trionfante il ministro – gli insegnanti delle paritarie, con almeno 36 mesi di servizio (anche non continuativi) nei cinque anni precedenti, di cui uno nella classe di concorso per cui chiedono l’abilitazione, potranno ottenerla conseguendo 30 crediti formativi universitari (Cfu o Cfa). Come i loro colleghi delle scuole statali, i docenti delle paritarie avranno quindi la possibilità di abilitarsi e di essere assunti a tempo indeterminato».

«La maggioranza di governo sbandiera risultati a suo dire straordinari», era stata la risposta della Federazione Lavoratori della Conoscenza CGIL. «Tra questi, l’equiparazione dell’esperienza maturata dal personale docente nelle scuole statali e paritarie ai fini dell’accesso a percorsi abilitanti agevolati, propedeutici alle assunzioni a tempo indeterminato. I percorsi semplificati sono lo strumento che il datore di lavoro Stato ha a disposizione per dare riconoscimento ai docenti che prestano l’attività professionale all’interno delle scuole statali e si colloca nell’insieme delle disposizioni dirette a superare il precariato storico della scuola italiana. Riteniamo sbagliato e ingiusto mettere sullo stesso piano un’esperienza professionale che ha seguito le rigorose regole di selezione e reclutamento della scuola statale e quella che ha seguito altri criteri di accesso, spesso discrezionali del datore di lavoro privato».

Tra i modelli cui guarda il ministro c’è quello lombardo, dove da anni è attiva la misura “Dote scuola”, oggi articolata in quattro forme di finanziamento: “Buono Scuola” («per la retta scolastica di una scuola paritaria o pubblica con retta di iscrizione e frequenza»), “Sostegno Disabili” («a parziale copertura del costo del personale insegnante impegnato in attività didattica di sostegno presso scuole dell’infanzia autonome, non statali e non comunali, e scuole paritarie»), “Materiale Didattico” («per l’acquisto di libri, strumenti per la didattica e dotazioni tecnologiche»), “Merito” («per premiare gli studenti che ottengono risultati di eccellenza»).

In particolare la misura del “Buono scuola” prevede ogni anno un esborso di circa 24 milioni di euro per garantire alle famiglie lombarde quella famigerata “libertà educativa” in nome della quale la scuola pubblica è costantemente privata di fondi.

Per il ministro si tratta di un «modello di eccellenza», come ha avuto modo di ribadire nel corso del convegno “Il modello Lombardia: una risorsa per il sistema di istruzione nazionale”, tenutosi a metà novembre, durante il quale ha affermato che su di esso bisogna riflettere sempre più a livello nazionale, rassicurando però che «la strada è tracciata».

Una strada alla fine della quale è lecito chiedersi se della scuola pubblica, quella vera, resterà ancora qualcosa o solo macerie.

Ingrid Colanicchia

 

 

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