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La libertà di stampa. E cosa c’entra?

Non c’entra nulla, ma proprio nulla, la libertà di stampa con l’ispezione avvenuta giovedì mattina negli uffici de “Il Giornale"

Nessuno si sogna, tanto meno il procuratore Lepore, che su richiesta dai pubblici ministeri napoletani Piscitelli e Woodcock ha disposto l’ispezione, di voler contestare quello che quel quotidiano ha scritto o scriverà; il punto è l’uso dell’informazione come strumento di ricatto.

Lo dicono a chiare lettere le motivazioni del provvedimento: il giornalista "ha il pieno diritto di scrivere ciò che ritiene, di criticare e di farlo anche in modo duro, pungente e veemente" e "anche di essere fazioso". 

E’ usare l’informazione come un arma impropria che rappresenta un reato; minacciare qualcuno di renderlo oggetto di una campagna stampa se non fa qualcosa o qualcosa non dice.

Per usare le parole del magistrato: nessuno "ha il diritto di utilizzare la prospettazione dei propri scritti e delle proprie pubblicazioni al solo scopo di coartare la volontà altrui".

Credo che nessuno, che conservi un minimo d’onestà intellettuale, possa dare torto ai giudici napoletani su questo punto. Pubblicare un’inchiesta approfondita su tizio o caio, specie se questi hanno posizioni di potere, è semplicemente buon giornalismo.

Farlo per aiutare una parte politica, o danneggiarne un’altra, forse non sarà deontologicamente cristallino, ma è il modo in cui il mondo dell’informazione funziona da sempre e certo non solo in Italia.

Esprimere opinioni, anche durissime, anche irridenti, è addirittura un dovere per il giornalista; dare a X del ladro o del corrotto, anche senza avere delle prove inoppugnabili a riguardo, se davvero si pensa che X sia un ladro o un corrotto, è criticabile, ovviamente, ma certo non punibile.

Non in un paese civile, perlomeno.

Quello che è inaccettabile, e con il giornalismo non c’entra proprio nulla, è quello che il quotidiano di proprietà – per chi crede alla favole – di Paolo Berlusconi ha gia fatto in tante circostanze: minacciare le voci di dissenso nei confronti del Governo di renderle oggetto, se si ostinavano nelle loro posizioni, di una campagna stampa.

E’ quello che viene impropriamente chiamato “metodo Boffo” - impropriamente, perché nel caso di Boffo la campagna stampa, per quanto odiosa e fondata sul nulla, avvenne senza essere preceduta da minacce – ma sarebbe meglio chiamare metodo Fini.

Non erano necessarie le intercettazioni telefoniche per incriminare dello stesso reato il direttore de “Il Giornale”; sarebbero bastati alcuni articoli risalenti alla scorsa estate, in cui il presidente della Camera veniva apertamente minacciato: o rientri nei ranghi, gli scriveva dalla prima pagina l’allora direttore Vittorio Feltri, o vedrai quel che ti succede.

Si iniziò con il ventilare l’esistenza di storie a base di sesso e cocaina che avrebbero visto coinvolto Gianfranco Fini; si arrivò, dato che Fini si ostinava “nell’errore”, e perché i segugi de “Il Giornale” non trovarono nulla di più succoso, a fare una campagna stampa incentrata sull’appartamento di Montecarlo.

“I segugi” sono gli stessi che il vice direttore del quotidiano, Nicola Porro, annuncia a Rinaldo Arpisella, segretario di Emma Marcegaglia, di aver spostato da Montecarlo a Mantova, avvertendolo che: “adesso ci divertiamo per venti giorni rompiamo il c... alla Marcegaglia come pochi al mondo".

E’ questa telefonata, intercettata nel corso di un’altra indagine, che ha indotto i PM ad ascoltare il presidente di Confindustria, ed è con il precedente di Fini in mente, oltre a quelli di Veronica Lario, di Boffo, del giudice Mesiano e di tanti altri che Emma Marcegaglia ha detto ai magistrati "Ho sicuramente percepito l'avvertimento come un rischio reale e concreto per la mia persona e per la mia immagine (...) Il Giornale era piccato sia per le mie dichiarazioni contro l'operato del governo Giornale sia, soprattutto, per il fatto che io stessa e Confindustria ci siamo sempre filati poco il Giornale (...) Non mi era mai capitato che un quotidiano tentasse di coartare la mia volontà con queste modalità".

Senza quell’intercettazione di questa vicenda non avremmo saputo nulla; Emma Marcegaglia con una telefonata a Confalonieri si era levata di dosso i segugi – viene da chiedersi cosa abbia promesso in cambio: forse di essere meno critica col Governo? E perché proprio a Confalonieri che, sempre per chi crede alla favole, con “Il Giornale” c’entra ben poco – e la minacciata campagna stampa era stata annullata.

Quello che sarebbe rimasto e resta è un paese ridotto ormai ad una repubblica delle banane dove il Presidente del Consiglio usa i mezzi d’informazione sotto il proprio controllo per “coartare la volontà” dei maggiori esponenti della politica e dell’economia.

Di Marcegaglia, grazie a quell’intercettazione, sappiamo; di quanti altri politici, imprenditori, intellettuali, invece non sappiamo nulla malgrado siano stati oggetto di attenzioni analoghe da parte delle truppe giornalistiche di Silvio Berlusconi?

Quanti hanno rinunciato ad esprimere la propria opinione, o si sono rassegnati ad accondiscendere a qualcosa, sotto la minaccia del manganello informativo agitato dagli squadristi del Presidente del Consiglio?

C’è chi si scandalizza quando viene usata la parola regime, parlando di quello che c’è in Italia. “Bisogna stare attenti”, dicono, “prima di dire certe cose”. Appunto.

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