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La dura vita degli imam moderati

Migliaia di minacce di morte piovono su Hassen Chalghoumi, imam di origine tunisina che opera nel sobborgo di Drancy non lontano da Parigi. La sua colpa? Aver condannato l’assassinio di Samuel Paty, l’insegnante ucciso da estremisti islamici per una lezione sulla libertà di espressione in cui aveva mostrato anche le ormai famose vignette satiriche su Maometto. 

Aveva osato definire Paty: “martire della libertà di espressione”, “persona saggia che ha insegnato la tolleranza, la civiltà e il rispetto per gli altri”. Per tutta risposta, una marea di odio che ha costretto le autorità a rafforzare la sua scorta e ha portato ad almeno tre inchieste. Nelle banlieue francesi depresse notoriamente può covare l’odio islamista come forma di rivalsa e affermazione. Non a caso proprio da Drancy veniva uno degli stragisti del Bataclan: sua madre si era persino rivolta all’imam chiedendo aiuto perché si andava radicalizzando.

Non solo condanna gli omicidi. Si schiera per riforme laiche e contro il burqa (che definisce senza mezzi termini una “prigione”). Chalghoumi ha anche il difetto, per la (vasta) platea di fedeli musulmani antisemiti, di essere troppo amichevole con la comunità ebraica. Su di lui pende già una mortifera fatwa, emanata dall’Isis dopo gli attentati del 2015. A fargli la guerra per scalzarlo dalla guida della sua moschea, fin dal 2010, l’esponente del collettivo intitolato allo sceicco Ahmed Yassin, fondatore e capo spirituale di Hamas. Ovvero Abdelhakim Sefrioui, proprio uno degli islamisti che ha istigato l’omicidio di Paty. Le autorità francesi si sono mosse – tardivamente – per sciogliere questa e altre decine di organizzazioni comunitariste di tendenza islamista, che operavano spesso dietro il paravento della beneficenza o della lotta alla “islamofobia”. Tardivamente, dato che già dal 2014 si parlava di sciogliere il collettivo di Sefrioui per le tendenze virulentemente antisemite.

Qualcosa si sta muovendo nella comunità islamica dopo il trauma della decapitazione di Paty. Il Conseil français du culte musulman, che rappresenta i musulmani mainstream, ha lanciato un “piano di lotta contro tutte le forme di radicalismo e di estremismo”. Forse è il momento per tanti di uscire dall’ambiguità che spinge a tollerare atteggiamenti retrivi e all’omertà verso i più esagitati. Ma proprio le organizzazioni religiose di rappresentanza dovrebbero fare un passo in più, non limitarsi ai proclami: oltre all’isolamento e alla denuncia degli estremisti, devono emanciparsi da patroni stranieri fin troppo invadenti.

Qualche anno fa ha fatto scalpore per inclusività la moschea aperta a Berlino dall’imam (donna) Seyran Ateş, avvocata musulmana di origine turca, che fa pregare insieme sciiti e sunniti, uomini e donne. Per le sue posizioni troppo liberali è stata oggetto anche lei di numerose minacce di morte, che la costringono a vivere sotto scorta. Se certe personalità sono viste come mosche bianche e si tenta di schiacciarle, è perché le moschee sono piene di predicatori poco integrati e integralisti: proprio in Germania circa 9 imam su 10 provengono dall’estero e tengono sermoni in lingue straniere. Sicuramente la barriera linguistica e culturale, dietro il paravento dell’uso dottrinale dell’arabo, incide sul ripiegamento integralista.

I recenti attentati che hanno sconvolto la Francia e l’Austria spingono i governi a intervenire congiuntamente contro il radicalismo. Già il presidente francese Macron aveva lanciato la sua sfida al “separatismo”. Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel ha rilanciato l’idea di istituire un ente comunitario per formare imam. L’obiettivo è recidere i legami con i paesi stranieri che favoriscono l’infiltrazione islamista e spingono sull’acceleratore delle tensioni politiche e sociali. Tra gli esempi recenti, il jihad ideologico e commerciale lanciato dalla Turchia di Erdogan per boicottare la Francia. O gli scontri a Décines-Charpieu, nei dintorni di Lione, in cui nazionalisti turchi si sono mossi in massa per aggredire gli armeni. Ormai è acclarato che il lento e prolungato lavorio di movimenti come quelli salafiti o dei Fratelli musulmani, foraggiati da potentati arabi, ha contribuito alla diffusione delle ideologie estremiste in seno alle moschee e alle comunità musulmane, contribuendo a una loro radicalizzazione “di ritorno”.

Ma può funzionare questa strategia europea volta a pilotare dall’alto l’evoluzione di un islam “moderato”? Già abbiamo espresso qualche perplessità sull’interventismo di Macron, che vagheggia un intervento dello stato per far nascere un “islam dei Lumi”. Il rischio è agire in superficie, in maniera cosmetica, magari istituendo qualche baraccone che drena tante risorse e dà prestigio ma è poco rappresentativo della comunità islamica. A guardare l’aspetto più prosaico, si tratterebbe di concentrare e investire risorse pubbliche per fare gli interessi di una religione. Una sorta di “cesaro-islamismo” che tra i laici, considerati sempre gli ultimi della classe, non può che destare qualche malumore.

Forse occorre una strategia diversa. Gli stati dovrebbero insistere sulla fermezza ma non trattare i musulmani come un tutto indistinto, come dei minorati o dei selvaggi. Si mostra controproducente tanto l’accanimento persecutorio e ottuso verso la generalità dei fedeli in stile crociata identitaria, quanto trattarli da perenni vittime della storia, specie protetta da coccolare e viziare, cui perdonare qualsiasi cosa e dalla cui vista allontanare qualsiasi elemento di turbolenza (come le vignette satiriche “provocatorie”). Non serve corteggiare con lusinghe o prebende. Nemmeno nascondere la testa sotto la sabbia permettendo di costruire ghetti in cui rinchiudersi, per una malintesa idea di “tolleranza” multiculturalista.

Anche da parte laica bisognerebbe superare una radicata cultura del sospetto che finisce per accanirsi contro la massa dei musulmani, ritenendoli tutti quanti una quinta colonna aliena che trama nell’ombra per sgozzarci. Le quinte colonne ci sono e sono rumorose, nessuno lo nega. Si può continuare a contestare, anche aspramente, l’islam in quanto ideologia e le sue ricadute più odiose senza necessariamente etichettare i musulmani come feroci Saladini.

Quello che serve è far capire ai musulmani che possono essere cittadini come gli altri, con oneri e onori: dare loro l’opportunità, come tutti, di cogliere i frutti che offre un paese moderno fondato su principi liberali, a patto che rispettino la legge “terrena” e dei principi minimi di convivenza, laicità e uguaglianza. Quindi, lotta decisa a storture come apologia della violenza per lavare le onte, omofobia, disparità tra uomo e donna, maschilismo e sessismo (che spesso brandiscono il velo), tendenza all’auto-ghettizzazione e pretesa di corsie preferenziali (a scuola, in piscina, alla mensa). Il raccordo di questa evoluzione gentile non può che passare tramite gli imam più aperti, che si trovano nella non invidiabile posizione di essere tra l’incudine e il martello. Dopo l’illuminismo molti cristiani si sono evoluti. Ce la possono fare pure tanti musulmani.

Valentino Salvatore

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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