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La dozzinale propaganda dei primi della classe

 

In un editoriale pubblicato oggi, il condirettore della Frankfurter Allgemeine ZeitungHolger Steltzner, accusa il presidente della Bce, Mario Draghi, di voler trasformare l’istituto di Francoforte in un emulo della Banca d’Italia. E lo fa dimostrando una robusta dose di ottusità, di quelle che di solito ritrovate in molti editoriali eurofobici ed antitedeschi di casa nostra.

Nel pezzo, intitolato “Salvataggi senza frontiere“, Steltzner sostiene che Draghi avrebbe una indiscussa expertise nella monetizzazione del debito pubblico in quanto italiano e proveniente dalla Banca d’Italia. Il riferimento è ad una prassi in vigore ai tempi in cui la Banca d’Italia era subordinata al Tesoro. A quell’epoca venivano fissati rendimenti massimi sui titoli di stato da offrire al mercato, e la Banca d’Italia era tenuta a sottoscrivere in via residuale tutto l’invenduto.

Ora, non sappiamo se le cose con la Bce andranno esattamente in questi termini: saremmo inclini a pensare di no, visto che l’eventuale intervento della Bce dovrebbe arrivare dopo un bel memorandum, e già questo basterebbe per spazzare via una simile balorda similitudine. Ma quello che sfugge a Steltzner ed agli agitatori suoi pari è che la Banca d’Italia è divorziata dal Tesoro dal 1981, quindi parliamo di una prassi che non esiste più da oltre un trentennio, al minimo.

E non è neppure il caso di ricordare all’austero condirettore della FAZ che la stessa Buba in passato si è esibita in prassi di monetizzazione del debito federale tedesco, anche se le motivazioni dell’epoca erano “alte e nobili”. Correva l’anno 1975. Continua a volerci pazienza. Riconosciamo i nostri italici peccati, rendiamo lancinante il nostro senso di colpa da pregresso lassismo fiscale sino al punto da renderlo equivalente a quello dei tedeschi verso il loro passato (citazione da dibattito pubblico teutonico), ma in nessun caso accettiamo lezioni come questa, che sono palese frutto di malafede che sconfina nella stupidità. Considerato che questa non è la Bild, ce n’è abbastanza per nutrire robusti dubbi sulla qualità della stampa tedesca.

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