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La TAV e l’autoritas che non c’è più

"Dopo qualche giro di escort ed infinite auto-blu di troppo, godendo di stipendi da favola e pensioni d’oro e mantenendo gli aerei di stato sempre in volo, i nostri politici si sono guadagnati la stessa autorevolezza di un venditore di patacche; un venditore di successo, al più".

Non ho una precisa opinione sulla Tav; non so nulla d’ingegneria dei trasporti e non so come valutare i costi e benefici per la comunità nazionale di quella realizzazione.

Penso che avremmo dovuto dare la priorità a rimodernare una rete di trasporto merci fatiscente che, almeno qualche anno fa, era completamente inaffidabile e che tutt’altro che capillare e che dovremmo liberare strade e autostrade da quanti più TIR possibile prima di pensare a costruirne altre, ma la mia, come nel caso del nucleare, è un’opinione data a naso, come credo sia quella favorevole o contraria che può dare qualunque altro cittadino italiano.

Quello che mi sento di dire, ad ogni modo, è che in Val di Susa lo Stato ha dimostrato una volta ancora la sua mancanza di autoritas; una bella parola romana che non è resa dalla nostra autorità. Theodore Mommsen la definiva come la capacità di dare qualcosa di più di un consiglio e qualcosa meno di un ordine; un consiglio da non ignorare alla leggera. L’autoritas, dunque, non usa il potere coercitivo dell’autorità, ma il peso dell’autorevolezza.

Sulla TAV, come sul nucleare o sulla necessità di aprire un inceneritore, dovrebbe essere il parere dello Stato, specie di fronte ai dubbi dei cittadini, ad essere qualcosa più di un consiglio: io non me ne intendo, ma, a Roma, c’è qualcuno che ne sa più di me che ha deciso così; se si fa, serve, e se si fa qui è perché, tra tutti, questo è il miglior posto possibile In Italia, invece, il parere dello Stato conta assai meno di un consiglio; per molti cittadini conta quanto un parere interessato: se si fa è perché serve a qualcuno dei loro; se si fa qui è per non disturbare qualcun altro, sempre dei loro.

Non c’è ormai una sola figura tra quelle più in vista del nostro mondo politico, con la parziale esclusione del Presidente della Repubblica che goda di qualcosa di simile all’autoritas; la cui opinione pesi, per capirci, quanto pesava quella di Carlo Azeglio Ciampi.

E’ proprio la mancanza di autoritas della nostra classe dirigente a farmi essere pessimista, e in più di un senso, per quanto riguarda il futuro prossimo dell’Italia.

E’ ormai evidente che per cercare di salvare il paese, bisognerebbe chiedere oggi, subito, ingenti sacrifici a molti dei suoi cittadini, ma è pure palese che per farlo servirebbe quell’ autoritas la cui assenza è dimostrata di proprio dal ritardo criminale con cui ci accingiamo ad affrontare il problema del debito pubblico.

Ora che siamo messi in un angolo, che è la situazione a dettare le scelte, c’è solo da temere che una classe dirigente priva di autoritas cerchi d’imporle d’autorità; usando solo la repressione e la coercizione. 

Proprio al modo in cui si formò il debito pubblico, oltre che in mille comportamenti “non penalmente rilevanti” di tanti politici di tutti i livelli, è da far risalire la crisi d’autoritas che affligge lo Stato; è questo il danno più grave prodotto da tangentopoli.

Lo Stato, mai del tutto ristabilitosi dalle ferite infertegli l’8 settembre e il 28 ottobre (sì, è la data della marcia su Roma) è entrato in agonia in quegli anni. Prima d’allora i cittadini pensavano che le decisioni della politica fossero prese, almeno in parte, forse solo una piccola parte, anche nel loro interesse; che ci fosse chi rubava sugli appalti delle autostrade, per capirci, ma che le autostrade, magari pagate troppo care, fossero utili alla collettività.

Nel 1992 fu spazzata via ogni residua illusione in questo senso: le autostrade o gli ospedali potevano essere completamente inutili, destinati a non essere mai finiti; inventati solo per rubarci sopra. Da allora i cittadini sanno che la soluzione proposta dallo Stato ad un problema può essere addirittura la peggiore; una trovata senza senso per favorire i soliti noti.

Le ultime gocce di veleno alla propria morente autoritas, se ve ne fosse stato bisogno, la classe politica le ha versate in questi ultimi anni.

Erwin Rommel, nei suoi diari, ha parole d’elogio per i soldati italiani, ma è estremamente critico verso i nostri ufficiali. Tra le tante mancanze di cui li accusa c’è quella di non mangiare lo stesso rancio dei soldati; di pretendere di esercitare il comando da una posizione di privilegio usando l’autorità, ma senza alcuna autorevolezza.

Non serve dare giudizi morali per affermare che mai come ora la classe politica è stata vista come altro rispetto alla società. Non lontana dalla società: altro. Ha altre priorità e altri problemi rispetto quelli dei cittadini; altri interessi. Il principale? Sia o no così, agli italiani pare sia la difesa puntigliosa, assolutamente bi-partisan dei propri privilegi.

Dopo qualche giro di escort ed infinite auto-blu di troppo, godendo di stipendi da favola e pensioni d’oro e mantenendo gli aerei di stato sempre in volo, i nostri politici si sono guadagnati la stessa autorevolezza di un venditore di patacche; un venditore di successo, al più.

Appare evidente che la crisi della seconda Repubblica, già apertissima che lo si dica o no, potrà trovare una soluzione positiva solo se emergeranno delle figure autorevoli; se ve ne siano ancora, e ve ne siano abbastanza, dentro la politica, io non lo so.

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