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La Bad Merchant Bank di Palazzo Chigi e dintorni

Premessa d’obbligo: l’epidemia di coronavirus oggi in atto nel mondo, mentre si discute su aspetti nominalistici (è già pandemia o no?), cambia radicalmente gli scenari. Soprattutto per l’Italia, il paese sviluppato più fragile sul pianeta, e che potrebbe subire un collasso economico. 

Ciò premesso, ad oggi da noi abbiamo tre nodi irrisolti di cosiddetta “politica industriale” e l’esecutivo, tra un balbettio e l’altro, punta a soluzioni che erano molto rischiose già prima dell’epidemia.

Le tre aree critiche sono riconducibili a tre aziende: Alitalia, Ilva, Autostrade per l’Italia (ASPI). Casualmente, operanti in contesti che risulteranno tra i più colpiti dalla gelata produttiva conseguente al virus.

 

Su Alitalia, oggi leggiamo che il commissario straordinario, Giuseppe Leogrande, avrebbe intenzione di pubblicare un bando di gara “rivoluzionario”. Scrive Rosario Dimito sul Messaggero:

Nel nuovo bando d’asta è completamente cambiato il business model. Non più la partecipazione in una newco contenente più o meno il perimetro della società, ma uno spezzatino con la vendita di tre rami d’azienda: handling, manutenzione, aviation con facoltà di acquistarli anche in un lotto unico.

Sogno o son desto? Siamo tornati allo spezzatino dopo anni di traccheggio e promesse solenni di mantenere inviolato ed inviolabile l’originario perimetro aziendale? E che diranno i sindacati di Alitalia, che in apparenza tengono in pugno da anni alcune decine di milioni di contribuenti italiani? E il ministro ingegner Stefano Patuanelli, che mesi addietro vagheggiava sulla Nuova Iri riuscendo persino a tirarsi dietro qualche imbolsito intellettuale da salotto giurando che prima di smembrare Alitalia avrebbero dovuto smembrare lui?

Mistero. In attesa della smentita in giornata, ci corre obbligo di segnalare che l’epidemia è destinata a devastare i conti di tutti i vettori mondiali, abbattendo quindi il valore di mercato di chi tenta di mettersi in vetrina oggi. Vero che nessuno può prevedere il futuro ma se dovessimo arrivare allo spezzatino, dopo anni che lo si chiedeva come unica via percorribile alternativa alla liquidazione, servirebbe istituire il Premio Stupidità 2020. Ed oltre.

Seconda area critica di “politica industriale” (si fa per dire) è Ilva. Anche qui, notizie drammatiche per il settore, a livello globale. Crollo di domanda e apocalittica sovracapacità sono destinate a seminare distruzione in giro per il mondo. E noi, come siamo messi? Dalle ultime notizie, pare che lo stato italiano stia preparando la nazionalizzazione della società, e che il 28 febbraio sarà firmato l’armistizio giudiziario con l’amministrazione straordinaria.

Gli anglo-indiani ritireranno la volontà di recesso, e i commissari non li perseguiranno per ciò. Dopo di che, si dovrebbe andare verso una NewCo con ingresso pubblico, che dovrebbe lavorare su una assai problematica transizione alla decarbonizzazione, affiancando agli altoforni un forno elettrico con relativo pre-ridotto, gestito da Pantalone. A noi italiani piacciono le missioni impossibili, evidentemente.

Ma questo è tutto quello che si sa, ad oggi. Nulla su tempi e modi, nulla sugli esuberi, che erano e sono la linea del Piave per i sindacati e la politica, attestati ai livelli dell’accordo di due anni addietro, cioè un’era geologica. Tutto quello che si sa è che Arcelor Mittal avrà uno sconto sul canone di fitto e che se entro novembre non si sarà trovato l’accordo operativo pubblico-privato, potrà salutare pagando mezzo miliardo, di cui cento milioni per valorizzazione di magazzino. Una opzione put, in pratica. Stop, niente altro.

Pensate che conti usciranno nei prossimi mesi, dato lo stato dell’economia mondiale e del settore a massima leva su tale congiuntura, la siderurgia. Riuscite ad immaginarlo? Secondo me, no. Questa tregua giudiziaria, che è meglio di nulla, si limita a celare enormi problemi riorganizzativi, che sarebbero esistiti anche se non si fosse mezzo di mezzo l’assai velleitario tentativo italiano di trasformare in corsa un modello di produzione di acciaio.

Da cosa è partito, tutto ciò? Dalla rimozione dello scudo penale? Sì ma nel senso che quello è stato l’alibi di disimpegno per gli anglo-indiani. Il bello di questo paese è che ogni giorno ha la sua guerra di religione, ed alla fine ci si scorda perché siamo perennemente bloccati a metà del guado. O meglio, del guano.

Ma il gioiello di indeterminatezza e la commedia degli equivoci è senza dubbio il caso di Autostrade per l’Italia. Revochiamo? Non revochiamo? Cerchiamo di estrarre svariati miliardi fuori tariffa ad Atlantia? Varie ed eventuali? Nei giorni scorsi il premier, Giuseppe Conte, si è spinto ad un invito pubblico alla società a presentare un’offerta transattiva, negando contestualmente che fosse tale:

Non si dica che il Governo vuole transigere o sta facendo una proposta o controproposta.

Allora non diciamolo, professor Conte: abbiamo sul tavolo un non-invito a transare. Ma nei giorni precedenti la grande buca delle lettere dei quotidiani italiani è stata riempita di segnali di fumo. “Atlantia vuole scendere sotto il 51% di ASPI”, “potrebbe vendere l’eccedenza a F2I o altro fondo ad hoc della famiglia CDP”, e così spero di voi. Tutte uova di Colombo, in pratica.

Un peccato che, come sempre in questi casi, la domanda senza risposta resti una sola: quanto varrebbe la partecipazione in ASPI ceduta da Atlantia? E qui cascano gli asini, di cui in Italia abbiamo un allevamento con pedigree. Dunque, vediamo, seguitemi: sul tavolo ci sono i nuovi criteri di tariffa della Autorità per la regolazione dei trasporti (ART), che abbattono il valore economico delle concessioni.

Se Atlantia cedesse la quota di controllo di ASPI, come valorizzarla? Beh, al valore calcolato in base ai nuovi criteri tariffari, la perdita potrebbe essere tale da indurre i Benetton a non vendere e resistere nella famosa sede legale che mai arriva. Per contro, se Atlantia vendesse ad una entità pubblica al suo valore di carico e poi si applicassero le nuove tariffe, prenderebbe la botta sulla quota che le resta in carico, e l’entità pubblica la prenderebbe ben più forte.

E quindi? Quindi niente società mista pubblica-privata, non mi pare servano grandi competenze specialistiche per arrivarci. Anche qui, a un anno e mezzo dai proclami dopo la tragedia del Ponte Morandi, siamo ancora alle chiacchiere. Teneteci, o revochiamo. Fateci un’offerta, vi supplico, o andremo avanti. A supplicarvi.

Tre casi da manuale di irrazionalità nella gestione di altrettante trattative. Tre casi in cui i proclami populisti incontrano la realtà, e vengono massacrati. E con essi, i contribuenti. Ma non c’è problema, ci sarà sempre qualche talk televisivo in cui andare a vendere la fontana di Trevi e l’olio di serpente a sessanta milioni di gonzi, oltre che ambiti in cui presentare dotte elaborazioni ideologiche di rilancio. Nel frattempo, dalla Bad Merchant Bank di Palazzo Chigi, nuove meravigliose idee prendono forma.

Non mi stancherò mai di ripeterlo: la nostra è una bancarotta culturale, civile e sociale, di comunità nazionale, prima che economica e finanziaria, di cui è naturale premessa. Né è casuale che le forme più degradate, patologiche ed autolesionistiche di populismo prosperino in questo paese. La quarantena per noi serve per motivi diversi dal coronavirus.

Questo articolo è stato pubblicato qui

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