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L’invadenza del “frate in corsia”: la testimonianza di un paziente ricoverato d’urgenza

La nostra associazione si impegna nel denunciare invadenze confessionaliste nelle istituzioni e nelle strutture pubbliche, come scuole o ospedali

Talvolta il nostro attivismo laico viene minimizzato, se non ridicolizzato, da chi non ha passato certe esperienze o derubrica alcune questioni come poco importanti. “Esagerati!” Ci sentiamo dire. Ma intanto continuiamo a ricevere una montagna di segnalazioni di persone che ci chiedono supporto, segno di quanto il problema della laicità in Italia sia vivissimo. E continuiamo a ricevere tantissimi (preziosi) messaggi di stima da quelle persone, che ci danno la spinta per proseguire.

Il confessionalismo sistemico si infiltra con la sudditanza e l’inazione della politica, sebbene la popolazione sia sempre più secolarizzata e insofferente dei privilegi religiosi. Un confessionalismo che, mascherato da sussidiarietà o da “libertà religiosa”, approfitta oggi persino dell’emergenza sanitaria causata dal coronavirus per invadere spazi e ledere la dignità delle persone. Come ci aveva già raccontato l’anno scorso E. M., ricoverato per Covid-19 e ritrovatosi con un prete a prestargli “conforto”, in una stanza dalla quale non poteva uscire. Stavolta riportiamo una simile testimonianza di Franco (nome di fantasia per tutelarne la privacy), ricoverato d’urgenza per un intervento e impossibilitato a muoversi.

Anche in questo caso, con le rigide regole sanitarie anti-coronavirus che impedivano le visite, un religioso era comunque libero di aggirarsi nei reparti e di importunare i pazienti, a prescindere dalla loro posizione e dalla volontà espressa. Al disagio per i pazienti si aggiunge la beffa che vede questi “assistenti religiosi” nominati dai vescovi ma pagati dal Sistema sanitario nazionale come operatori sanitari, con annesse concessioni e agevolazioni. Il tutto sulla base di convenzioni tra diocesi e ospedali. Una spesa che la nostra inchiesta “I costi della Chiesa” ha stimato per almeno 35 milioni di euro l’anno.


Sono stato ricoverato cinque giorni, per un’urgenza, in un reparto dell’ospedale di *. Il reparto, per scelta dei suoi responsabili, era completamente “sigillato”. Non erano permesse visite, nemmeno negli orari consentiti, né alcun tipo di assistenza ai malati (ad esempio, con l’intervento di badanti). Nemmeno nei casi di persone anziane o allettate, quindi non autosufficienti. A nulla valeva la proposta di sottoporsi a tamponi, la regola era ferrea: non entra nessuno. Provvedevano a tutto gli operatori socio-sanitari e gli infermieri, o almeno ci provavano. Perché, come è facile immaginare, non riuscivano ad essere presenti in ogni momento, a rispondere ad ogni chiamata anche per cose banali come collegare un telefono alla presa elettrica, prendere un fazzoletto dal comodino, raccogliere qualcosa scivolato dal letto.

Capite bene che sono cose che, pur sembrando banali, sono difficili e persino umilianti per chi è bloccato a letto, spaventato, dolorante, solo. Di notte potevano passare anche venti o trenta minuti fra il suonare il campanello (a me è capitato per l’insorgere di dolori da post-intervento) e il veder comparire qualcuno. Per poi magari sentirsi dire «vengo a metterti l’antidolorifico appena ho finito di là, nell’altra camera». Tutto questo è per descrivere la situazione, sperando di essere riuscito a fare percepire il senso di emergenza e di non normalità. La cosa assurda, e che qui volevo denunciare, è che poi durante gli interminabili pomeriggi passati in assoluta solitudine (ad eccezione del proprio compagno di stanza, ovviamente non scelto), arrivava quotidianamente un frate, il cappellano dell’ospedale, libero di girare fra i reparti e le camere, a “dare sostegno”, chiacchierare un po’, dire le preghiere. Con la mascherina semi abbassata, tra l’altro, ma a parte questo, lui era libero di andare e venire, entrare e uscire da reparti con visitatori a reparti “bolla”, da sale d’attesa a camere isolate, in nome del suo ruolo. Come se fosse l’unico capace di dare sollievo, ristoro, compagnia ai malati. L’ho trovato assurdo, nel 2022.

Io sono entrato in ospedale passando dal pronto soccorso e poche ore dopo mi sono trovato sotto i ferri e poi “prigioniero” di questo reparto. Avrei voluto un minuto, un solo minuto, stare con la mia compagna, o con i miei genitori. Niente. Li hanno tenuti fuori dalla porta. Ero spaventato, solo, confuso, totalmente incapace di muovermi nelle prime 48 ore, spiazzato. Ma il frate poteva andare e venire, e invitarmi a dire il Padre nostro. Bisognerebbe intervenire, duramente, contro questi soprusi confessionali dati per scontati, accettati passivamente come se non la si potesse pensare diversamente. Grazie per l’attenzione.

Franco

 

Questo articolo è stato pubblicato qui

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