L’Egitto amarissimo di Laila e Alaa
Laila Soueif ha sessantotto anni. Né tanti né pochi, ma ne dimostra decisamente di più. Il volto è segnato da una vita di lotta iniziata giovanissima, quando aveva sedici anni, e manifestava a piazza a Tahrir contro il regime di Sadat da poco salito al potere.
Una protesta che per lei non durò a lungo, visto che i genitori, entrambi docenti universitari, la rintracciarono riconducendola in casa prima che le potesse capitare qualcosa di spiacevole. Laila aveva una passione per la matematica e dai banchi di scuola e poi dell’università l’ha trasferita nella vita lavorativa, entrando anche lei nell’ateneo del Cairo in qualità d’insegnante. Lì aveva conosciuto il futuro marito, Ahmed Seif El-Islam, un attivista comunista anch’egli docente e avvocato. Insieme hanno avuto tre figli Alaa, Sanaa e Mona. Tutti attivisti come i genitori. Il volto di Laila è segnato non tanto dal passare del tempo, ma dalle sofferenze. Dalle vicende familiari frutto dell’impegno per libertà e giustizia. I guai del primogenito Alaa sono arrivati, come per migliaia di giovani protestatari, con le primavere arabe che hanno scosso il Medio Oriente dal dicembre 2010. Nel gennaio 2011 la generazione successiva a Laila era tornata in piazza Tahrir contestando Hosni Mubarak che di lì a qualche settimana abbandonerà un potere durato molto più a lungo di quello del predecessore Anwar Sadat. Tutti presidenti, tutti militari, come l’attuale persecutore di Alaa e Laila: Abdel Fattah al Sisi. Il generalissimo. Il militare egiziano, che fece fuori il presidente laico Mohammad Morsi, si predispone a durare - ad Allah piacendo - più dei sovrani di quel regno militare che ancora s’ostina a definirsi Repubblica d’Egitto. Si cita Sisi e qualsiasi italiano normale pensa a Giulio Regeni, al suo strazio, al suo martirio. Gli italiani di governo invece fanno spallucce. Dicono che non sapevano del suo sequestro, lo fa sotto giuramento l’ex primo Ministro Renzi al processo in corso a Roma contro gli aguzzini del ricercatore friulano, che poi sono fidati servitori del regime di Sisi. Oppure sostengono, come la premier Meloni, che l’Egitto è un Paese sicuro e ci rispediscono chi ne fugge atterrito o affamato.
Basterebbe chiederlo alla professoressa Laila, a suo figlio Alaa cos’è diventato l’Egitto nell’ultimo decennio. E se migliaia di attivisti locali non possono qualificarlo in nessun modo perché sono stati tacitati per sempre (come? alla maniera di Giulio Regeni o anche peggio perché gli scomparsi sono un’infinità) altre sessantamila egiziani e forse più rinchiusi nelle patrie galere certificano a familiari e avvocati, se e quando riescono a ricever visite, i segni di quella normalità: bruciature elettriche e di fiamma ossidrica, lividi e cicatrici sulla pelle e lì dove non vedono ma s’intuiscono, nel profondo dell’anima. Per un crudele e cruento gioco burocratico Alaa viene trattenuto due anni in più. Era stato arrestato nel 2019 con l’accusa di diffondere sui social “false notizie”, e aveva scontato la pena, però a pochi giorni dall’auspicabile liberazione la Corte del Cairo ha comunicato che i due anni trascorsi in prigione in attesa del processo non erano validi e ha riaggiornato la pena, con l’aggiunta di alcuni mesi. Per Alaa la data si sposta a metà del 2027. Da quel momento mamma Laila ha avviato uno sciopero della fame per domandare alle stesse autorità britanniche, che per lei e i figli sono un riferimento visto che hanno anche questa nazionalità, d’intervenire a sostegno di un abuso subìto da un cittadino del Regno Unito. Finora Laila ha ricevuto qualche promessa da Londra, nessuna dal Cairo, eppure le parole non si traducono in nulla. Oggi la docente, l’attivista per i diritti, la madre è al sessantesimo giorno di sciopero della fame. Beve acqua, assume minerali e sali, con un minimo di calorie, un’azione che per la sua età diventa rischiosa. Lei caparbiamente la prosegue ma in una recente intervista a Sky News ha dichiarato: “Personalmente ne ho abbastanza, non posso affrontare condizioni simili e anche Alaa è senza speranze. Il ministro degli Esteri (britannico, ndr) Lammy sostiene che il caso è una priorità governativa da discutere con l’omologo egiziano, non sembra che Il Cairo mostri attenzione né intavoli dialoghi. Spero di ricevere non più assicurazioni sulla vicenda, bensì iniziative concrete. Non voglio collassare o morire”.
Enrico Campofreda
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