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L’Aquila: rischi e vantaggi del troppo costruito sulla carta

Quando sulla carta (nel Piano Regolatore vigente) si prevede la trasformazione urbanistica di parti rilevanti del territorio comunale, si distribuiscono contemporaneamente dei vantaggi ai proprietari dei suoli dichiarati edificabili e dei rischi ai possessori dei terreni vincolati (solo sulla carta) per la realizzazione delle pubbliche attrezzature necessarie ai nuovi abitanti insediati

Forse, c’è una soluzione adeguata ad evitare i pronunciamenti del T.A.R. che, accogliendo i ricorsi dei cittadini maltrattati, gettano nel marasma l’amministrazione comunale aquilana con sulla carta un’infinità di rischi per i troppi vantaggi concessi.

Come Saturday Night Fever raccontava lo spirito aleggiante nei giovani degli anni settanta, così si potrebbe sceneggiare la febbre (giornaliera, annuale e decennale) dei costruttori del cemento. Però, le riprese non avverrebbero a New York, ma in gran parte dei nostri centri urbani. Non al 2001 Odyssey, ma nelle molteplici aree edificabili del centro e della periferia d’ogni nostra città.

Appositamente predisposte per costruirci non solo discoteche, ma sale multimediali, capannoni, centri commerciali, uffici, officine e tantissime nuove abitazioni per pochi neonati e neoimmigrati. Quindi, anziché soffermarci sulla preparazione e sullo svolgimento della gara di ballo vinta daTony e Stephanie, ci dovremmo occupare delle varie competizioni tra costruttori di metri cubi d’abitazioni e metri quadri di “non residenziale”. Parlando pure d’amministratori che allestiscono la scena della sfida per il primato in neorealizzazioni edilizie d’ogni tipo rendendo edificabili troppi suoli agricoli. Tramite lo “strumento urbanistico”, costoro indicano la nuova destinazione d’uso del terreno (ad es. residenziale) e l’intensità della sua trasformazione (i metri cubi costruibili su ogni metro quadro). Poiché, a cento metri cubi corrisponde un nuovo abitante insediabile, la previsione costruttiva di centomila metri cubi comporterà la profezia d’insediamento di mille nuovi abitanti ed un milione di m3 se il presagio d’incremento abitativo si riferisce a diecimila persone. Quindi i tecnici incaricati della stesura dello strumento urbanistico, indicano se, come e quanto un terreno sarà edificabile. Alla fine della fiera, scoprono quanti nuovi residenti sono stati pronosticati nell’urbe e poco importa se provenienti dal contado oppure dalle galassie più lontane. Conseguentemente, i supertecnici pianificatori presentano agli amministratori anche un altro conto di molto più salato, corrispettivo all’ammontare dei metri quadri di terreno da assoggettare obbligatoriamente per la realizzazione di pubbliche attrezzature che, per via della famigerata Legge Ponte e dei Decreti attuativi del ’68, deve essere almeno uguale a diciotto metri quadri per ogni abitante insediato ed insediabile.

Adesso la danza diventa cruenta battaglia per stabilire chi vive e chi muore, ovvero in quali terreni potranno vegetare nuove costruzioni e quali dovranno deperire in attesa di servizi e d’attrezzature urbane che la pubblica amministrazione difficilmente potrà realizzare per mancanza di fondi. Infine, gioiscono solo i possessori dei terreni edificabili che potranno realizzare sul libero mercato rendite commisurate alla posizione, alla futura destinazione d’uso ed all’indice d’edificabilità concesso, dalla Pubblica Amministrazione, solo a loro. Però, una maligna madre natura deve partorire anche qualche sgorbio che non crescerà mai di valore e, financo, per nulla al mondo sarà indennizzato, perché giammai verrà espropriato. E contro la matrigna che li ha condannati a questa palese disparità di trattamento, i proprietari dei terreni diversamente costruibili invocano giustizia. E poiché i figliastri derelitti aumentano al moltiplicarsi dell’appetito costruttivo promesso ai figli, quasi sempre la storia termina con un T.A.R. locale e con l’Alta Corte che prendono in considerazione i laceranti lai dei cittadini disegualmente trattati nell’ambito comunale, proprio dal loro Comune.

Piano Regolatore Generale de L’Aquila (qui disponibile)

Una delle tavole con la destinazione d’uso dei terreni

 

il cerchio giallo include: 

a) suoli destinati all’agricoltura;

b) terreni edificabili con “intervento diretto” o con “piano esecutivo” (P.E.E.P.);

c) terreni destinati a verde pubblico: se non utilizzati dalla P.A. diventano “aree bianche".

A tal punto, che il Tribunale Amministrativo Regionale abruzzese condanna l’Amministrazione aquilana al risarcimento del danno subito dai bistrattati cittadini, oppure alla loro equiparazione agli altri eletti beneficiandoli d’un seppur minimo diritto d’edificazione assegnabile ai loro terreni non più vincolati per servizi pubblici o pubbliche attrezzature. In quanto, il vincolo precedente viene rimosso per dichiarata incostituzionalità, i terreni che lo sopportavano vengono denominati “aree bianche”, perché appartenenti a figli albini o canuti. Per anni o decenni, queste aree permangono né tinte né stinte nella planimetria di piano regolatore, non assumendo il colorito delle aree a bassa edificabilità o quello delle aree agricole e neppure riassumendo la tinta fosca delle arre vincolate, perché la reiterazione dei vincoli non è ammessa dalla Corte Costituzionale. Almeno, i proprietari venissero risarciti! Invece, i poveri cristi vengono consegnati dai ponziopilato (che non dispongono di quanto basta per ripagarli dei torti subiti) ad un commissario ad acta nominato dal T.A.R. stesso.

Tutto finirebbe bene se ci fosse un Programma Pluriennale di Attuazione del Piano Regolatore.

Perché, nessun terreno sarebbe edificabile finché non inserito nel P.P.A. del P.R.G. vigente. Nello strumento urbanistico valido a tempo indeterminato ci sarebbero ancora terreni con potenziale diversa destinazione d’uso, ma quelli destinati all’edificazione ne acquisterebbero i benefici solo se inseriti nello strumento d’attuazione con validità triennale (massimo quinquennale) e solo dopo aver versato i contributi per l’urbanizzazione delle aree prescelte, ottenendo il “permesso di edificare” o la “concessione” che dir si voglia. Mentre, quelli vincolati a pubbliche attrezzature, se inseriti nello stesso P.P.A. avrebbero la certezza d’essere espropriati ed indennizzati entro tre o, al massimo, cinque anni. Evidentemente con le somme introitate nel P.P.A. che, appunto, equivale ad un “bilancio” di entrate e di uscite. Naturalmente, le Amministrazioni dovrebbero operare con virtuosità costruendo solo quanto è urbanizzabile ed inserire nel bilancio solo le entrate certe ed indispensabili e, contemporaneamente, ammettere in uscita soltanto le spese dovute ed inevitabili.

[continua]

- vedi: prima e seconda parte

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