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Israele, indignati fino a che punto?

Si chiamino Shlomo o Elisheva hanno invaso le piazze dell’amata Israele contestandone il governo. A Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa ma anche in piccoli centri. “Eravamo 12000 ad Afula, 7000 a Rohs Pina, 7000 a Khiryat Shemona, vi bastano? Possiamo continuare” dicono su Skype e sorridono. Una folla. Non il pienone atteso eppure quattrocentocinquantamila manifestanti non sono pochi su una nazione di 7.5 milioni di cittadini, così l’eco è stata amplissima.

 

L’imbarazzo della politica resta, nonostante da almeno due settimane i think-tank e anche diversi intellettuali progressisti cerchino di ripetere come quel movimento, che al pari di quello di Madrid o del Cairo usa il concetto dell’indignazione verso una leadership sorda, sia assolutamente apolitico. Mira poi a fatti concreti e vuole parlare solo di ciò che lo riguarda. Dell’assottigliarsi di attenzione sociale verso tanti soggetti che si sentono abbandonati dal governo liberista e ideologico di Bibi Netanyahu che fa tanto solo per ricchi, colonie ed Esercito.

Nelle strade non ci sono solamente ragazzi senza futuro, c’è un presente fatto di disoccupati (5,5%) neppure tanto giovani o occupati che risentono della restrizione del welfare. I ceti della piccola borghesia che soprattutto sul tema di aumenti degli affitti, crescente carovita, fisco si ritrovano soffocati. Ma reclamano anche contro l’accresciuta disattenzione verso maternità, istruzione infantile, assistenza sanitaria.

Le testimonianze dalla piazza richiamano anche sigle conosciute che il marchio politico ce l’hanno eccome. Prendiamo a sinistra New Israel Fund che fa capo a una ricca Ong statunitense che dal 1979 invia denaro nel Paese per finanziare iniziative sociali e civili. Gli attivisti che s’occupano di diritti umani e vogliono uno “Stato che garantisca la completa uguaglianza sociale e politica per tutti i suoi abitanti, senza riguardo a sesso e religione” naturalmente sono in strada a contestare.

Eppure costoro sono, ad esempio, in aperto contrasto coi sostenitori della campagna per il boicottaggio attuata da altri ebrei. La ritengono perentoria, non fiduciosa nella possibilità d’una trasformazione positiva della società. Loro, insomma, sono politicizzati e impegnati perché Israele trovi una via riformista senza però stravolgere l’impianto originario della nazione dei padri. Risultano il bersaglio privilegiato delle formazioni dell’ultradestra come Im Tirtzu, anch’essa presente in questa fase coi propri militanti per via.

Il gruppo, faziosamente sionista, s’era distinto nelle caldissime giornate dello scorso maggio. Durante le manifestazioni palestinesi per ricordare la Nakba, che sui confini libanese e siriano furono represse nel sangue, diffondeva davanti agli uffici Unrwa di Gerusalemme un documento intitolato “Nakba Bullshit” e provocava gli arabo-israeliani. La politica è dunque nelle strade seppure le magliette con la casa che i manifestanti indossavano sabato notte indicano una questione specifica e tal Itzhik Shmuli, segretario dell’Unione degli studenti che assume già il tono del capopolo, tiene a ribadire che si guarda dentro Israele non fuori.

C’è chi pensa differente. “Le ragioni economiche hanno risvolti politici – ci dice telefonicamente un amico ebreo della capitale che vuole restare anonimo – è semplicistico pensare che quel che accade nella vita di tutti i giorni sia svincolato dalle scelte del Palazzo”. La forza della protesta è sottolineata da illustri di commentatori intervenuti su Haaretz e Maariv, tutti notano come dopo due mesi la piazza stia imponendo a Netanyahu un ribaltamento dell’agenda politica.

Il premier ha promesso misure per la riduzione dei costi e delle ineguaglianze sociali, per quanto dopo anni di politica monocorde certi pronunciamenti appaiono giustificazioni dell’ultim’ora. I media di casa non fanno mancare un’attenzione esplicita al fenomeno, sebbene incombono crisi con la Turchia e l’ombra del voto dell’assemblea Onu sullo Stato palestinese.

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