• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Mondo > Israele, i dubbi e gli incastri politici del nuovo Knesset in vista delle (...)

Israele, i dubbi e gli incastri politici del nuovo Knesset in vista delle elezioni

Il premier più longevo della storia del Paese è in difficoltà politica e giudiziaria, potrebbe perdere lo scettro del potere dopo dieci anni di successi economici. I numeri dei sondaggi, i possibili scenari e cosa bolle nel calderone delle opposizioni in attesa del 9 aprile.

«To Bibi or not to Bibi» . E’ un’Israele amletica, che muta ma rischia di non cambiare veramente, semmai diventare più instabile e potenzialmente aggressiva, quella che uscirà dalle prossime urne il prossimo 9 aprile, quando il Knesset, il Parlamento israeliano, sarà rinnovato per la ventunesima volta nella storia del Paese. 

 Quarantasette i partiti regolarmente registrati per la competizione, il numero più alto dal 1949, quando si insediò la Costituente. Con ogni probabilità più della metà dei voti sarà fagocitata dai partiti più grandi: il “Likud”, il partito sionista, liberal-nazionalista e conservatore dell’attuale primo ministro Benjamin Netanyahu, il premier più longevo nella storia del Paese, e il nuovo “Blu e Bianco”, a trazione centrista, il partito dei delusi: quelli dal graduale irrigidimento delle politiche di Netanyahu e quelli stanchi dalle politiche inefficaci e delle lotte intestine dei partiti di sinistra. Una novità nata dalla fusione tra “Hosen L’Yisrael” (Resilienza per Israele), il nuovo partito di Benjamin Gantz, popolare generale dell’esercito israeliano collocato tra i partiti centristi, e “Yesh Atid” (C’è un futuro) di Yair Lapid, centrista e sionista, arrivato secondo alle precedenti consultazioni con 19 seggi.

Blu e Bianco”, secondo gli ultimi sondaggi, sarebbe il partito più votato dagli israeliani ed è in lizza per essere incaricato dal Presidente della Repubblica Reuven Rivlin per avviare i dialoghi ufficiali propedeutici alla formazione dell’Esecutivo. Gantz, che per i primi due anni sarebbe il titolare di Beit Aghion (negli altri due anni spetterebbe a "Lapid") arriverebbe a 33 seggi, la maggioranza relativa, contro i 26 mantenuti da Netanyahu (rispetto al 2015 “Likud” perderebbe solo quattro scranni). In totale i partiti che si contenderanno i 120 seggi del Knesset dovrebbero essere 12, una formazione che però dovrebbe favorire la coalizione di destra, che manterrebbe quindi il Governo.

Nel prossimo Knesset dovrebbero esserci i partiti arabi di Ayman Odeh e Ahmad Tibi (9 scranni) che rimarrebbe terza forza del Paese, ma che perderebbe quattro esponenti rispetto al 2015. Problemi per i “Labor” di Avi Gabbay (8) vicini al tracollo con un terzo dei consensi in meno. Migliorano la “Nuova Destra” di Naftali Bennett e Ayelet Shaked (8 scranni, cinque in più) e gli ebraici di “United Torah Judaism“ di Yaakov Litzman (8, due in più), entrambi vicini a Netanyhau e ostili a “Blu e Bianco”. Non dovrebbero avere problemi nemmeno i secolaristi della sinistra della battagliera Tamar Zandberg di “Meretz” (8) in salita nei consensi (+3), e nemmeno i religiosi ortodossi di “Casa Ebraica” e “Tkuma” praticamente stabili (8).

Ci sarà posto anche per il partito che lotta contro la povertà, "Kulanu" (4), il partito centrista dell’ex ministro dell’economia Moshe Kahlon che perderebbe 6 scranni, ma che si candida ad essere ago della bilancia tra i due schieramenti. Ci dovrebbe essere, infine, la conferma degli ultra-ortodossi sefarditi di “Shas” (4) in calo di tre scranni. Nuovo, invece, l’apporto dei liberisti e liberali di Moshe Feiglin “Zehut” (4), nati dalla costola di “Likud”ma pronti ad allearsi con chiunque a patto venga legalizzata la cannabis. Resterebbe fuori, stando al sondaggio pubblicato dalla free-press “Israel HaYom”, il pluri-ministro Avigdor Lieberman di “Israele, Casa Nostra”, anti-palestinese e filo- Orientale, che non supererebbe la soglia prevista dal proporzionale israeliano del 3.25 percento e che nel precedente parlamento occupava 6 seggi.

Un panorama eterogeneo che, stando ai numeri e alle trame politiche dovrebbe portare, però, a novità sostanziali rispetto al 2015, quando dopo un testa a testa “L’Unione sionista” di centrosinistra Yitzahk Herzog finì in minoranza. Nonostante i guai giudiziari Bibi Netanyahu, imputato in tre casi di corruzione, dovrebbe riuscire ad essere eletto nuovamente premier seppur con un margine più ristretto di cinque scranni (61) rispetto al 2015, e con una modulazione più incline al suprematismo dell’ultra-destra di Peretz, Smotrich, e all’intransigenza Kahanista di Ben Ari, oltre a quelle libertarie di Feiglilo. Uno spostamento verso l’ultra destra che si evince ancor più dalle parole dell’attivista anti-migranti May Golan, ora in lista con "Likud", che ha giustificato il suo passaggio da “Otzma Yehudit” (Potere Ebraico) col fatto che sia stato «Likud ad essergli venuto incontro» e non lei a moderarsi.

Non è detto, però, che l’eventuale quinto governo Netanyhau, che si ritiene innocente e vittima di una cospirazione, abbia lunga vita. Se infatti le accuse del pm Avichai Mandelblit fossero convalidate dal giudice durante l’audizione del prossimo aprile il governo potrebbe cadere e lo scenario cambiare.

Secondo un recente sondaggio pubblicato da “Chanel 11” due terzi degli israeliani pensano che Netanyhau dovrebbe dimettersi qualora venisse giudicato colpevole dai giudici. Una posizione condivisa da alcuni partiti politici, tra cui “Kulanu” (Tutti noi) pronto a sfilarsi dalla flebile maggioranza in caso di condanna.

Anche la probabile coalizione formata da “Blu e Bianco” e i suoi alleati, però, appare tutt’altro che stabile. Sicuramente è rissosa e meno oleata dalle difficili convivenze dei partiti della sinistra, di quelli arabi e di quelli centristi. Preminente è la questione palestinese, visto che il partito di Gantz, strategicamente, non ha espresso una posizione chiara e decisa sulla teoria della "soluzione a due stati", un cavallo di battaglia per i partiti della sinistra, ostili a soluzioni diplomatiche troppo mediate, annacquate e non risolutive. Poi c’è "Meretz", rivitalizzato dopo due quadrienni in discesa, ma che è avulso alla religione e che non si alleerebbe con le destre (esattamente come i "Labor"). Proprio la necessità di recuperare consenso dal maggior partito di coalizione potrebbe poertare attriti e divisioni in seno all’Esecutivo. Senza contare le possibili difficoltà con i nuovi alleati provenienti dalle destre: per esempio qualora fosse necessario l’accordo con “Zehut” favorevole alla “one state solution”. Un puzzle, anche questo, tutt’altro che semplice e che rischia di minare decenni di crescita e di sviluppo economico.

Un recente sondaggio ha evidenziato come la popolazione israeliana sia preoccupata per il proprio futuro, soprattutto per il fatto di non poter risparmiare abbastanza denaro per poter aiutare i propri figli. Preoccupazioni, però, ritenute infondate da “Bloomberg”, uno delle più autorevoli testate mondiali, secondo cui l’economia israeliana sarebbe solida e sostenuta da fondamenta tecnologiche e ingegneristiche avanzate. 

Lo evidenziano tutti parametri economici più significativi, come la crescita economica: in media di 3.69 punti percentuali dal 2000 ad oggi. Un andamento che da qui al 2020 addirittura migliorerà, almeno secondo l’Oecd, secondo cui Israele scalerà ben due posizioni arrivando al secondo posto tra le 36 economie analizzate. Parametri che tengono conto dell’oculata gestione dei conti dello Stato, il cui debito pubblico è sceso dal 70.7 percento del Pil del 2010, al 61.39 di oggi, e che lo relega al 63esimo posto nel ranking mondiale, dietro comunque a Danimarca, Norvegia e Cina, ma meglio di Giappone, Italia e Stati Uniti.

Bene anche i dati sulla disoccupazione, sono bassi e in costante discesa (3.7 secondo e ultime stime del Central Bureau of Statistics), molti dei quali inoccupati per scelta. Anche qui, comunque, c’è margine di miglioramento: molti lavoratori, infatti, sono part-time e molti sono mal pagati. Il tasso di povertà è al 17.7 percento è il secondo più alto dell’Oecd. Secondo alcune stime più di due terzi della forza lavoro israeliana percepisce meno della media nazionale, c’è un diffuso malcontento per le infrastrutture e per la Sanità.

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox


Pubblicità




Pubblicità



Palmares

Pubblicità