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Irlanda del Nord, quando il passato è ancora presente

Sono trascorsi 15 anni dall’accordo di Stormont, più noto come accordo del Venerdì Santo, che il 10 aprile 1998 mise fine ai “troubles”, ovvero a 30 anni di conflitto politico nell’Irlanda del Nord.

Lunedì prossimo prenderà il via una nuova serie di negoziati presieduta dall’ex inviato speciale degli Usa in Irlanda del Nord, Richard Haass. All’ordine del giorno, diverse questioni insolute risalenti al passato e altri argomenti controversi di oggi, come lo svolgimento delle parate e l’uso delle bandiere e dei simboli politici (nella foto l’esercito britannico accanto a uomini del gruppo paramilitare protestante Uda negli anni ’70).

L’accordo di Stormont e la sua attuazione vengono presentate dal governo di Londra come un modello di successo. Per molte famiglie delle vittime della violenza, tuttavia, si tratta più che altro di un fallimento.

Durante i “troubles” (qui un libro per saperne di più) furono uccise più di 3600 persone e oltre 40.000 vennero ferite. Nella maggior parte dei casi, come ha ricordato Amnesty International in un rapporto pubblicato ieri – basato su incontri e 47 lunghe interviste con parenti di persone uccise provenienti da comunità diverse e con persone gravemente ferite nel corso del conflitto - nessuno è mai stato chiamato a risponderne.

Nonostante alcune indagini isolate e l’assunzione di responsabilità del governo di Londra per la “domenica di sangue”, le autorità britanniche e i partiti nord-irlandesi non hanno mai dimostrato di avere la volontà politica di cercare fino in fondo la verità e arrivare alla giustizia.

Troppi, insopportabilmente troppi, sono stati i fallimenti delle inchieste effettuate dalla Squadra di indagini storiche della polizia dell’Irlanda del Nord, dall’ufficio del Difensore civico per le attività della polizia e da vari coroner, ognuna della quali aveva un mandato limitato e ha spesso lasciato le famiglie delle vittime con più domande che risposte.

Come James Miller, il cui nonno David Miller fu ucciso insieme ad altre otto persone a Claudy nel 1972, in un attentato attribuito all’Ira:

“Si dice che stiano aspettando che moriamo. Ma la prossima generazione continuerà a fare domande su quanto è successo. Prendete me, quello che è stato ucciso era mio nonno, ma io continuo ancora a chiedere la verità”.

Queste invece sono le parole di Peter Heathwood. Nel settembre 1979 alcuni uomini armati, sospettati di essere lealisti, lo aggredirono nella sua abitazione. Da allora è rimasto paralizzato. Suo padre, Herbert Heathwood, ebbe un attacco di cuore e morì durante l’aggressione.

 

“La gente dice ‘dimentichiamo il passato e andiamo avanti, è successo 30 anni fa’. È una stupidaggine bella e buona. In Irlanda del Nord il passato è il presente. Se non affrontiamo il passato, i miei nipoti dovranno di nuovo soffrire per questo, e io non voglio che vada così. In quanto persone ferite, siamo le cicatrici viventi della società e abbiamo bisogno che venga riconosciuto ciò che abbiamo patito”.

Amnesty International chiede l’istituzione di un meccanismo onnicomprensivo di revisione del conflitto, che possa stabilire la verità sulle violazioni dei diritti umani in sospeso e ne determini le responsabilità, ponendo fine all’impunità e contribuendo a sanare le perduranti divisioni del tessuto sociale nord-irlandese.

Un meccanismo del genere dovrebbe esaminare i casi delle persone gravemente ferite e delle vittime di tortura e altri maltrattamenti, che troppo spesso sono state escluse dai procedimenti esistenti, ha dichiarato l’organizzazione.

Infine, il rapporto di Amnesty International raccomanda che su alcuni casi specifici come l’attentato di Omagh o l’omicidio di Patrick Finucane (l’avvocato di Belfast ucciso da un gruppo armato lealista) siano garantite inchieste pubbliche indipendenti.

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