(In)ter(per)culturando: Andrea Di Consoli - considerazioni sparse
Non so quanto sia effettivamente possibile comprendere di un autore attraverso i suoi scritti. Nel caso di Di Consoli evidentemente le mie sono percezioni mancanti di creature di parole. Eppure in ogni periodare, in ogni intervento, articolo, narrazione in prosa e poesia, se penso al Di Consoli di carne mi vengono in mente subito due aggettivi: inquietudini e tormenti.
C'è, io credo, un'esigenza di sangue e pelle da parte dell'autore di cercare continuamente, indagare la natura umana, l'esistenza tutta, traendone grandi sforzi, fatiche che ne lacerano a loro volta le carni. I personaggi dei due romanzi ne sono esempio lampante. Così come la lingua stessa, sapientemente dosata, controllata e lanciata da Di Consoli, è fusione di saliva, gengive, palato, corte vocali instabili e labbra arse dal sole, screpolate dal freddo, rotte da gesti e morsi. Di Consoli si interroga continuamente, esattamente come fa il Bambino, protagonista de 'Il padre degli animali'. Si interroga su sé stesso, su ciò che gli è successo, su scelte, rinunce. E lo fa al di fuori del biografismo rassicurante, lo fa allungando lo sguardo, scegliendo personaggi, voci, storie e versi che di lui mantengono taluni umori, sapori intensi, a tratti fastidiosi, urticanti, ma che si espandono in un 'attorno' che è visione d'insieme, consapevolezze che quelle inquietudine, quei tormenti non sono punti di arrivo men che meno indagini private.
Il Sud e l'abbandono della propria terra.
Le origini sono cosa seria, per Di Consoli. Di Consoli è nato a Zurigo da genitori lucani che per una decina d'anni ci sono anche tornati assieme al figlio, in questa lucania che l'autore non dimentica pur essendosi trasferito a Roma dal 1996. Ed è un Sud durissimo, quello evocato dall'autore, duro e povero, perennemente incerto tra onore e malavita, incapace di rialzarsi, di riappropriarsi di un'economia in grado di sfamare tutti.
Questo Sud, nonché il suo abbandono, quest'origine che è poi diventato abbandono, sembrano essere, per l'autore, ferite aperte, incicatrizzabili. Ritornano insistentemente tra parole, versi e storie. Ritornano con l'affettuoso rammarico del legame complesso, difficile, a tratti insostenibile, eppure indistruttibile. Ed è raro, un legame di questo tempo, quanto meno dell'italia contemporanea che di radici ne ha strappate probabilmente troppe. Dove ci si sposta in fretta, si lasciano luoghi per altri e ci si dimentica. Ma la smemoratezza non contagia Di Consoli.
"Devo dire che soffro di claustrofobia per cui ho bisogno di fare più cose, di non vincolarmi professionalmente a nessuno e poi ho la necessità di guadagnare, di mettere insieme uno stipendio decente. Aggiungo che da sei mesi sono padre per cui c’è anche una dimensione familiare che mi assorbe molto. Purtroppo non fa curriculum, come direbbe qualche poeta, ma per me è un aspetto assai importante, che mi coinvolge molto".
L'impressione immediata che arriva leggendo Di Consoli è di estrema sensibilità. Le tematiche che ritornano, il bisogno di chiedere/chiedersi, gli scavi, l'impossibilità di interrompere un percorso in e tra la letteratura che comunque resta fatica, definito spesso inutile. Di Consoli è stato definito 'autore maledetto' soprattutto dopo l'uscita di 'La curva della notte' che aggiungeva a 'Il padre degli animali' un incedere tra buio e cadute, 'il male di vivere' di Teseo non è soltanto palesato, nominato e per questo estremamente violento nella carne, ma è precisa ammissione. Che di mali si occupa Di Consoli. Che sono le sofferenze, i dolori, le fatiche che corrodono, insistono; sono loro gli 'oggetti' indagati continuamente, sentiti, riproposte con le parole dense che non cercano scorciatoie. Il 'male' interno ed esterno io credo sia necessità precisa, di vomitare tutto ciò che Di Consoli avverte attorno a sé. Perché di questo si tratta, di fotografare un reale poi trasposto in parole, storie, versi. Non è quel male inconsistente che spiega tutto e niente, che danza solo, e si fatica a capire. E' un male di gesti precisi, atteggiamenti, respiri, corpi affaticati, persi, malati, affamati. E' della vita che scrive Di Consoli, di quella che conosce attraverso una sensibilità spiccata. La vita dura, che non sconta niente a nessuno, dove ogni scelta ha conseguenze carnali. Non so quanto effettivamente sia rilevante oggi (per il mercato editoriale, per i lettori veri o potenziali) il definire 'male-detto' un artista, ho il sospetto che ormai sia irrilevante non tanto per i sensi che possono comunque esserci, quanto per le standardizzazioni che hanno tolto sensibilità, che rendono ogni cosa piatta e simile alle altre. Sta di fatto che il male nominato, enunciato, urlato, vomitato e svelato da Di Consoli non ha nulla di patinato e insipido. E' un male instabile, corrosivo, distruttivo anche, che non ha nulla di 'bello' e 'dannato' nella declinazione di eccitante ed accattivante come per talune leggende e fiabe. La dannazione è affogarci in questi 'mali', il sentirli fortemente, gravemente. La dannazione è il non riuscire a ignorarli, io credo, il non poterseli togliere di dosso, farli fluire dimenticandoli l'istante dopo.
Le scritture mutano, si limano, perfezionano, plasmano dentro e attorno a chi le genera. Di Consoli non è autore facile da analizzare, le sue scritture come già spiegato in precedenza mutano, cambiano pelli, virano, cercano schemi, strutture, per poi sfogliarli, denudarli.
Una caratteristica generale, però, mi sembra costante, persistente: la durezza che attraverso la scrittura stessa restituisce una precisa percezione delle carni. Durezza nelle scelte semantiche, lessicale, di forme. Durezza nei modi e toni. Negli accostamenti. Durezza fatta di spigoli, materiali forti, resistenti, che non si scalfiscono facilmente. Durezza di intenti, sguardi impietosi verso tutto e tutti. Durezza forse, come unica scelta scarna e onesta per andare avanti, per essere oltre gli ingabbiamenti, i brusii fastidiosi, le dinamiche sociali e professionali.
Che Di Consoli sia autore carnale non sia affermazione nuova. La sensorialità con cui narra, le scelte linguistiche, di poetiche, gli scorci di corpi e gesti, i richiami ciclici ad elementi materiali, sono ovunque. Si intrecciano con le strutture, a volte le mescolanze tendono a farli scivolare ma ci sono. Entro gli approcci trattati in precedenza, di durezza, male, contorsioni, contraddizioni, inquietudini; i corpi restano comunque. Insistono a emergere dalle parole. Ed è un'insistenza significativa. Perchè tra sottrazioni, ne palesano un resto, un elemento impossibile da eliminare. Il corpo appunto, la carne. Che comunque, in ognuno, è.
Se uno ci pensa
Fonti
Recensionea ‘Quaderni di legno’ di Nunzio Festa.
L'intervista di Massimo Vecchi su Retidedalus.
Poesie della disperata carne, rintracciate on line dal blog wordpress di Comunità Provvisaria.
Gli approfondimenti di Di Consoli, all'interno dell'open blog di Massimo Maugeri, con cui collabora ne La stanza dello Scirocco.
Su Ibs, le pubblicazioni di Andrea Di Consoli.
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