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Il Cile dimenticato dal mondo: non sono 30 pesos sono 30 anni

 

A 5 mesi dall’inizio delle proteste in Cile, mentre il mondo ha smesso di guardare, il popolo cileno continua la sua lotta per il raggiungimento della dignità e dei diritti dovuti. 

di Chiara Di Falco

(Foto di Chiara Di Falco)

È iniziato tutto un venerdì di ottobre, il 18 per l’esattezza, quando la protesta di alcuni studenti universitari contro l’aumento del prezzo del biglietto della metropolitana di Santiago, in atto ormai da tutta la settimana, è scoppiata in una rivolta cittadina. La polizia della capitale ha provveduto all’immediata soppressione della ribellione in atto, non facendosi problemi ad utilizzare metodi violenti.

Questo ennesimo abuso di potere da parte delle forze dell’ordine ha spinto sempre più persone ad appoggiare la causa e a scendere in strada, determinate a mettere fine ai continui soprusi ed abusi messi in atto dallo stato negli ultimi 30 anni. Infatti, durante tutta l’epoca post-dittatoriale, mentre i vari governi appoggiavano con politiche di libero mercato l’élite imprenditoriale cilena, privilegiandola, il popolo e i suoi bisogni venivano ignorati. Tutt’oggi, la società del paese sudamericano risente delle direttive politiche prese durante questo periodo storico. Nel 2019, lo stipendio minimo continuava ad essere di poco più di 200€, le pensioni erano ancora privatizzate in maniera inefficiente e il costo della vita rimaneva insostenibile.

Fra le mancanze dello stato più evidenti, c’era un complice mantenimento della costituzione dell’epoca dittatoriale, la quale riusciva a far passare come lecita ogni azione antidemocratica. In aiuto, veniva l’appoggio militare delle forze dell’ordine, pronte a sedare violentemente ogni manifestazione di opposizione troppo evidente.

La protesta contro l’ennesima misura antipopolare portava con sé la voglia di cambiamento, incoraggiando la nascita di un movimento di ribellione ampio e trasversale. Il governo di Piñera si è servito dello stato di emergenza per rispondere aggressivamente alle manifestazioni, imponendo il coprifuoco e autorizzando l’esercito a scendere in strada per sopprimere le proteste. Questo risvolto antidemocratico ha portato a una radicalizzazione della ribellione, spingendo gli abitanti di quindici dei sedici capoluoghi regionali cileni a seguire l’esempio dei cittadini di Santiago. Nelle strade, però, ogni manifestazione di dissenso veniva sedata da una polizia militarizzata ed estremamente aggressiva.

L’azione popolare, in alcuni casi, si è servita dell’uso della forza, sia per difendersi dagli attacchi violenti della polizia, sia come forma di manifestazione, per una protesta che potesse risvegliare immediatamente l’interesse governativo sui temi proposti dalla popolazione.

Non tutte le manifestazioni, però, si sono dimostrate irruente; la maggior parte delle persone scendeva pacificamente nelle strade, sfilando in grandi marce con cartelloni, intonando canti di ribellione, attuando il tipico metodo di protesta sud americano: il cacerolazo.

La repressione, però, non faceva distinzioni. È pertanto facile intendere che il reale nemico del governo è il cambiamento stesso piuttosto che le forme in cui il popolo lo reclama.

Le prime due settimane di protesta sono state impregnate dal sangue e dalla violenza da parte delle forze dell’ordine, che hanno sistematicamente violato i diritti umani, abusando del proprio potere.

Il 10 novembre erano morte già 22 persone durante le settimane precedenti, 12 delle quali a causa di incendi e saccheggi, 3 investite durante il caos cittadino, e 5 uccise dalle forze dell’ordine. Inoltre, si erano registrati 5629 detenuti, 197 manifestanti con ferite oculari causate dall’uso improprio dei fucili a piombini e dei lacrimogeni da parte della polizia, e vari casi di tortura e di violenza sessuale perpetrati all’interno delle caserme. Il 15 gennaio, l’ Instituto nacional de derechos humanos de Chile aveva pubblicato un report nel quale figuravano ben 1.080 denunce verso agenti di polizia, accusati di violenze innecessarie, lesioni e trattamenti crudeli.

È importante ricordare che tali violazioni dei diritti umani siano accadute all’interno di uno stato che si definisce democratico, sotto gli occhi di un governo silente e complice.

In risposta alle proteste, per tentare di placare il malcontento, il Presidente Piñera ha adottato delle misure tampone, presentando azioni che non soddisfacevano realmente i bisogni dei cileni. Ai molti sono apparse solo come provvedimenti palliativi, per cercare di calmare le proteste dei cittadini concedendo qualche briciola.

Non potendo evadere il tema onnipresente della domanda di una nuova architettura costituzionale, il Governo è stato costretto ad avvicinarsi alle richieste popolari e a programmare per aprile un referendum in cui decidere se scrivere o meno una nuova costituzione e, in subordine, se farlo attraverso un’assemblea di eletti dal popolo o una commissione mista al 50%, tra eletti e membri dell’attuale Parlamento. Con tale azione, Piñera ha dimostrato la sistematica evasione dello Stato nei confronti delle richieste popolari, le quali, in realtà, invocavano un’assemblea costituzionale diretta, per dare il potere decisionale ai cittadini e per toglierlo al governo corrotto in carica che, se non destituitoavrebbe sabotato una democratica riscrittura della Costituzione.

Al momento gran parte dei deputati, di destra e non, esprime la volontà di riscrivere le basi costituzionali attraverso il metodo meno popolare proposto: quello che prevede anche la diretta partecipazione del

Parlamento. In questo modo, ancora una volta, si darebbe il potere deliberativo all’élite imprenditoriale del Paese che, con i suoi deputati, detiene la maggioranza parlamentare.

L’interesse internazionale verso i processi rivoluzionari in corso nel Paese latinoamericano è andato sfumando nei mesi a seguire. Tuttavia in Cile, specialmente a Santiago, dove vive la metà della popolazione del Paese, i cittadini hanno continuato a scendere in strada ogni giorno, con maggiore affluenza il venerdì, concentrandosi in Piazza Italia (ribattezzata Piazza della Dignità). Il popolo, tramite canti di protesta, balli, cartelloni e slogan di scherno, ha continuato a manifestare il proprio dissenso verso le direttive prese dal Governo, chiedendone le dimissioni, e verso la repressione violenta delle forze dell’ordine, le quali continuavano a macchiarsi di violazioni dei diritti umani.

E mentre la folla manifestava in Piazza della Dignità, un gruppetto di ragazzi continuava a fronteggiare direttamente la polizia con le poche armi e i pochi oggetti per difendersi a disposizione: dei sassi, una fionda, una maschera anti-gas, uno scudo improvvisato. Uno scontro forse anche ricercato, fomentato dall’odio verso le violenze subite da parte della polizia, ma necessario al fine di difendere le persone in piazza dagli attacchi delle forze dell’ordine, dandogli così la possibilità di manifestare pacificamente.

In particolare, i cileni in piazza chiedevano la liberazione delle migliaia di persone recluse nei mesi precedenti a causa delle proprie azioni di protesta. Secondo l’informe mensuale di marzo del Instituto de los derechos humanos de Chile, nel periodo che va da ottobre 2019 a marzo 2020, più di 11.300 persone sono state detenute e ben 2.500 incarcerate in maniera preventiva. Vari specialisti nel campo dei diritti umani in Cile sottolineano come questa detenzione preventiva sia una misura utilizzata per criminalizzare e castigare i manifestanti. Infatti, questa azione ha come principale scopo quello di intimidire tutti coloro che continuano a protestare nelle strade verso le politiche governative. E’ importante evidenziare che le persone detenute sono a tutti gli effetti prigionieri politici e che, più che essere stati condannati per le loro azioni, sono stati giudicati per generare azioni di rifiuto verso il modello economico e sociale presente al momento nel paese.

Fra gli altri, uno dei tanti temi toccati nelle manifestazioni quotidiane degli ultimi mesi nelle città cilene riguarda sicuramente la necessità di una giustizia ferrea e puntuale nei confronti delle violazioni dell’uso della forza da parte degli agenti di polizia. Sono pochi gli episodi di violenza già in corso di indagine; la maggior parte della azioni violente non sono state neanche riconosciute da parte dello stato e dagli stessi Carabineros de Chile. Ne è solo un esempio l’emblematico caso di Gustavo Gatica e di Fabiola Campillai, i quali perdettero completamente la vista a causa del comportamento repressivo della polizia. Nessun agente è stato processato, e non sono nemmeno state prese azioni preventive.

Dopo 5 mesi dall’inizio delle proteste, con l’arrivo di marzo, la riapertura delle università, delle scuole, e la ripresa del regime di lavoro normale, le manifestazioni sono tornate a crescere, causando molti disagi nelle principali città.

Al momento, le proteste nelle strade si sono fermate a causa dell’emergenza dettata dal coronavirus, ma riprenderanno certamente più forti di prima, in vista del referendum ormai posticipato a ottobre.

Mentre il mondo ha smesso di guardare, il Cile continua la sua lotta, tra violazioni dei diritti umani e trattamenti ingiusti da parte dello stato, ricercando la giustizia e la dignità rubata.
 

 
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