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Ikram Nazih: le accuse di “blasfemia” migrano ormai tra i continenti

Ikram Nazih ha ventitré anni, è nata in Italia da genitori marocchini, ha vissuto quasi soltanto nel nostro paese, ne ha acquisito la cittadinanza e ha cominciato a frequentare l’università di Marsiglia. Due anni fa ha pubblicato su Facebook una vignetta che trasformava un versetto del Corano in un versetto che parlava di whisky. Dopo essere stata insultata da alcuni fedeli zelanti ha immediatamente cancellato il post, e tutto sembrava essere finito lì.

Sembrava. Mai dire mai, con gli islamisti.

Alcune settimane fa torna in Marocco insieme ad alcuni parenti per passare qualche giorno in famiglia. Viene immediatamente arrestata. Pochi giorni dopo è condannata per “vilipendio alla religione” a tre anni e mezzo di reclusione nonché a una multa di circa cinquemila euro: la pena è aggravata dalla “diffusione attraverso i social media”.

Nel villaggio globale nulla sembra più sfuggire a qualunque inquisitore e ai loro volenterosi carnefici, ovunque si trovino: ricordiamoci che l’affaire delle vignette danesi fu fatto deflagrare in Medio Oriente da imam del paese scandinavo. Nel caso di Ikram, risulta che una confraternita religiosa marocchina, venuta chissà come a conoscenza del suo post, abbia presentato una denuncia in patria senza che, a quanto pare, la giovane ne fosse stata messa al corrente. Così come non sapeva di essere stata inserita in una blacklist dalle autorità del suo ormai “secondo” paese.

Del caso ha scritto il Fatto Quotidiano. Il 18 luglio Domani ha dedicato alla vicenda la prima pagina: un evento più unico che raro tra i quotidiani italiani, nelle cui redazioni la “blasfemia” è considerato un tema da evitare. E infatti non ne ha scritto pressoché nessun altro, a parte nuovamente Domani. Nemmeno tra i politici la sorte di Ikram ha riscosso molta attenzione. A parte quella di un deputato leghista, Massimiliano Capitanio, che ha depositato un’interrogazione parlamentare: un atto assolutamente meritorio, ovviamente, ma che (per coerenza) dovrebbe essere accompagnato da qualche azione per la soppressione della tutela penale del sacro tuttora presente nel codice italiano (fascista). C’è anche chi non ne parla perché pensa che il silenzio protegga Ikram, e/o per un malinteso desiderio di non favorire l’estrema destra anti-islamica – ma non parlarne farà soltanto il gioco dei liberticidi. Per certi versi, il caso è pure nuovo: in occidente sono state accolte diverse vittime di accuse di “blasfemia” (dalla pakistana Asia Bibi al palestinese Waleed al-Husseini, per citarne due tra le più note), ma non siamo abituati a vedere nostri concittadini incarcerati per “blasfemia” nei paesi della loro più o meno lontana origine.

E dire che la monarchia marocchina tiene parecchio a mostrarsi “tollerante” e “moderna”: pare però che lo faccia quasi esclusivamente all’estero. In patria preferisce invece rimarcare la propria presunta discendenza diretta dal profeta. E nella grazia del re Maometto VI confida ora la famiglia di Ikram. Sono situazioni che odorano di stantio, ma che rappresentano la realtà di uno tra i paesi a maggioranza islamica meno dispotici.

Ma pur sempre dispotici. Nessuna religione ama essere derisa, anche se in maniera innocua, e tutte sono molto sensibili alla protezione della propria “credibilità” da parte del potere politico: è forse la più antica strategia conosciuta di reputation management. Quella islamica, oggi, sembra però decisamente più scrupolosa delle altre. Ci sono ancora otto paesi che puniscono la blasfemia con la pena di morte, e sono tutti a maggioranza musulmana. La classe politica europea dovrebbe essere molto più attenta alla libertà di parola, mettendo sistematicamente la sua difesa sul tavolo in ogni occasione diplomatica. Non accade.

Perché non si deve scherzare con Allah, e con le centinaia di milioni di suoi fedeli che pensano che meriti di pagare a caro prezzo la tua “islamofobia”, spesso immaginaria, quasi sempre completamente inoffensiva. Sarebbe bello vedere le altre centinaia di milioni di musulmani ricordare ai loro suscettibili correligionari che Allah, se vuole, si può difendere benissimo da solo, e che quindi la devono piantare di tormentare chi la pensa diversamente. Sarebbe bello, ma al momento è decisamente utopico.

Una risata non fa mai vittime; la fede, purtroppo, ne crea quotidianamente. Speriamo che la sofferenza di Ikram finisca molto presto.

Raffaele Carcano

Su change.org potete sottoscrivere la petizione di Domani che chiede la liberazione di Ikram.

 

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