• AgoraVox su Twitter
  • RSS
  • Agoravox Mobile

 Home page > Attualità > Europa > Identità british e immigrazione

Identità british e immigrazione

In questo mese, che è passato dopo le rivolte inglesi, si è cercato, in Inghilterra, di parlare sopra ai fatti e non dei fatti (giammai interpretazioni): rispolverando l'abilità british di scrivere la storia (altrui di solito, casalinga in questo caso) anziché ricostruirla. Perché qui a nessuno è venuto in mente un parallelo con Parigi 2005?

Lo straniero però ha potuto osservare la reazione dell'opinione pubblica, dalla BBC al discorso dell'uomo comune di solito piuttosto istruito (anche se non a Cambridge), a questo fuoco di paglia (e negozi).

Uno dei reportage tipici della BBC Radio (custode dell'identità nazionale) ci fa ascoltare, almeno una volta la settimana, la biografia di una persona comune: un bimbo indiano/irakeno scampato agli orrori di regimi e guerre, è riuscito con tenacia a ricostruirsi una vita (di solito in UK) grazie all'accesso fortunoso a una buona istruzione (sempre in UK): tali storie vere finiscono di solito con la bimba/o che forma una famiglia (pilastro valoriale anche qui sull'isola, come mostra il tripudio isterico per il neo-papà Elton John) e che, naturalmente ora, “runs his own business”, ha un'attività in proprio.

Che cosa dicono queste storie? Perché sono raccontate proprio così? Come si deve vivere per essere accettati e rispettati da Cameron e della BBC?

La reazione di Cameron ai disordini è stata di schierarsi apertamente col gruppo dei buoni: ha empatizzato con le famiglie, con i commercianti che hanno avuto negozi e proprietà (altro vocabolo chiave, per capire il pensiero isolano: “property”) danneggiati e ha posto i cattivi a distanza (“pura criminalità”). D'altra parte Cameron ha risposto al proprio elettorato, che non è certo composto da gang di incappucciati. I veri inglesi (che possono dire “noi” contrapponendosi a “loro”) possono essere forse pensati, per il discorso che qui si va facendo, come quel 65% di adulti che hanno votato nel 2010. Sul restante 35% non si sente una parola: chi saranno? Dove sono?

In un noto esperimento di psicologia sociale (Tajfel 1971), ad una classe vennero mostrati dei dipinti di Kandinsky e Klee con la richiesta ad ogni studente di esprimere una preferenza. Tajfel divise poi la classe dicendo di aver messo da una parte i fan di Klee, dall'altra i fan di Kandisky: in realtà compose i gruppi in modo casuale. Tanto bastò però a creare un senso di solidarietà entro ciascun gruppo e un senso di differenziazione dall'altro: ciascuno istantaneamente pensava se stesso come Kandnskyiano o Kleeiano. Tale categorizzazione fu evidente quando Tajfel chiese ai ragazzi in che modo intendevano distribuire delle risorse (fiches, dato il contesto artificiale del laboratorio), se cioè optando per uno schema del tipo: “a noi Kandiskyiani 10 fiches - a voi Kleeiani 10” oppure “a noi 7 - a voi 0” etc... La scelta più gettonata fu di gran lunga e ripetutamente la seconda. Lo studio mostrò due cose: come sia spontaneo, dove le differenze siano vere o presunte, arroccarsi all'interno del proprio gruppo; che il pensare in termini di Noi/Loro sia una tendenza naturale: sorgeva semplicemente in base a diverse preferenze artistiche!

Con questo in mente, non ci stupiamo se una parte della società britannica si trova complemente “fuori” e il restante “dentro” ne prende le distanze a partire dal suo Primo Ministro. In Italia abbiamo una divisione tra caste, tra corporazioni... e molto meno forte è la presenza di non-nativi. In Inghilterra la situazione appare ed è diversa. Gli outsider sono molti mentre l'identità nazionale classica (e attuale) è basata su sacri simboli british: la Regina, Nelson, i successi militari del recente passato e del presente, l'orgoglio di chi si sente portatore di civiltà, le istituzioni democratiche, i Premi Nobel, il colonialismo come avventura. Il cittadino è tale quando è diventato “inglese dentro”: che sia figlio di pakistani e guidi un autobus, è necessario però che sia orgoglioso di essere diventato british. Quando i simboli isolani sono diventati suoi.

La parola d'ordine è sempre stata assimilazione. Non esiste, qui, integrazone morbida /diffusa all'italiana. Può anche essere un problema di numeri che si pone agli isolani: gli stranieri, dagli anni 50 in avanti sono arrivati da tutto il Commonwealth. In Italia però perfino il Veneto, culla del primo leghismo e del boom capannonico anni '90, ha finito per accogliere (ossia accettare) l'immigrato rumeno “purché lavorasse”. La debole identità italiana non mira ad assimilare nessuno, non mira a trasforamare, insegnare, convertire: non potrebbe neppure. E così non divide, almeno a livello ufficiale, istituzionale, manifesto, in Noi e Loro (tanto che le più recenti derive leghiste sono state respinte alle Comunali di Milano). Non si compiace di espellere o relegare chi non è “dentro” (rileggi Cameron). E' naturale per noi pensare che il milione di rumeni nel nord Italia, una volta imparata la lingua, sia inserito. Nell'Isola invece, milioni e milioni di caraibici, indiani, pakistani (di terza, quarta generazione) hanno dovuto imparare a pensare se stessi come britannici. Hanno dovuto passare dal “Noi” a quell'altro “Noi”, la maggioranza culturalmente british. Alcuni l'hanno trovato conveniente, praticabile o possibile e l'hanno fatto; altri no, come si è visto.

Questo articolo è stato pubblicato qui

Lasciare un commento

Per commentare registrati al sito in alto a destra di questa pagina

Se non sei registrato puoi farlo qui


Sostieni la Fondazione AgoraVox







Palmares