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I problemi del mondo universitario

I problemi del mondo universitario non sono pochi. E non è nemmeno facile risolverli. Abbiamo intervistato in proposito Gilberto Corbellini, professore ordinario di storia della medicina e docente di bioetica, sul n. 2/2022 della rivista Nessun Dogma

Di questi tempi il mondo universitario è al centro dell’attenzione un po’ ovunque, in quanto ritenuto l’epicentro di fenomeni culturali quali quelli noti con i nomi di woke (nel mondo anglosassone) o di islamo-gauchisme (in quello francofono). Sono realmente influenti? E come siamo messi, oggi, in Italia?

Si tratta di fenomeni decisamente tossici per la libertà di pensiero, perché intercettano e potenziano l’inclinazione umana al settarismo e all’intolleranza verso idee diverse. Paradossalmente le università, che nei secoli sono diventate in occidente catalizzatori delle libertà di pensiero, si trasformano in luoghi di pensiero polarizzato e di conformismo. Questi fenomeni sono anche la conseguenza del fatto che nelle università occidentali a un certo punto sono arrivati in cattedra docenti che da giovani erano attivisti soprattutto di sinistra, e che hanno continuato a praticare un pensiero polarizzato e motivato, ovvero un’inclinazione umana da sempre contagiosa verso i più giovani, su contenuti anche diversi rispetto a quelli di una stagione, dopo la seconda guerra mondiale, caratterizzata dalla critica sociale marxista contro il capitalismo e la guerra. Fino agli anni sessanta le idee di sinistra non entravano facilmente nelle università, perché nelle comunità accademiche le élite dei docenti erano per tradizione conservatrici, ovvero condizionate spesso da pregiudizi di etnia, religione, genere, status, eccetera, ma anche fortemente meritocratiche. I movimenti per i diritti civili negli Stati Uniti e i movimenti politici studenteschi e di rivendicazione sindacale hanno fatto da trampolino verso le università per un numero crescente di professori politicamente di sinistra e molto preparati.

A un certo punto, come ha osservato con delusione il celebre psicologo e socialista James Flynn, quegli stessi che erano stati censurati e tenuti alla larga dalle cerchie accademiche hanno messo in pratica la medesima logica, censoria e moralizzatrice, verso coloro che hanno idee diverse o giudicate sbagliate, e hanno cominciato a non consentire la pubblicazione di articoli o libri non in linea coi loro dogmi o ad aizzare gli studenti in vari modi contro chi non ragiona come sarebbe ritenuto politicamente ed eticamente corretto. Prima si sono battuti per la libertà di pensiero e poi hanno cercato di impedire la sopravvivenza di idee diverse dalle loro su questioni che infiammano gli animi dello spontaneismo giovanile come il razzismo, le migrazioni, le diseguaglianze sociali ed economiche, le discriminazioni di genere, la teoria del gender, il cambiamento climatico, i brevetti sui farmaci, la finanza, eccetera. La forza accademica di questi docenti, sostenuti dagli studenti, ottiene talvolta la cacciata di professori che insegnano qualcosa o usano un linguaggio che è non in linea. È probabile che le cose cambieranno via via che si ritireranno dalle università coloro che interpretano l’insegnamento anche come lotta politica o indottrinamento. In Italia, salvo alcuni casi, non mi sembra che il problema abbia assunto o stia assumendo le dimensioni che ha nel mondo anglosassone o in Francia.

Esiste un rischio reale che intere facoltà siano dominate da un pensiero unico? Come salvaguardare la libertà di insegnamento del docente e la necessità che lo studente si formi nel pensiero critico?

Bella domanda. In realtà i dipartimenti universitari si strutturano sulla base delle affinità di pensiero o interessi tra colleghi e il conformismo, quindi, è una condizione o una deriva quasi naturale e normale. Del resto, le dinamiche dello sviluppo culturale sono competitive per cui ci deve essere un vantaggio adattativo per queste tendenze, in alcuni paesi piuttosto che in altri o per certe idee piuttosto che altre. Non è forse un caso che sia stato il mondo accademico anglosassone e gli Stati Uniti in particolare a essere colpiti, dato che in questi paesi c’è stata una forte sensibilità per la libertà accademica, consentita anche da un funzionamento più meritocratico delle università, ma allo stesso tempo gli insegnamenti umanistici si sono rivelati più permeabili alla ideologizzazione in funzione della tendenza dei docenti, da un certo momento, a indottrinare gli studenti insegnando in modi polarizzati argomenti fortemente divisivi sul piano sociale e culturale.

La libertà di insegnamento non si dovrebbe mettere in discussione, ma la valutazione dei docenti reclutati dovrebbe essere fatta anche sulla base del modo di insegnare. Quando sono diventato professore era previsto che il candidato tenesse una lezione davanti alla commissione di valutazione, mentre oggi l’abilitazione è ottenuta col superamento di mediane calcolate direttamente da un algoritmo, cioè senza interagire col candidato. In alcuni casi un’intervista è prevista per le chiamate da parte delle università, che però non riguarda le idee sull’insegnamento. Comunque, una valutazione del candidato per capire come insegna e se rispetta l’indipendenza di pensiero e la dignità degli studenti non servirebbe laddove ormai i docenti sono reclutati proprio per insegnare quello che pensano, se quello che pensano è stato pubblicato bene, e non anche per insegnare a pensare in modo indipendente e critico.

Negli ultimi mesi hanno ricevuto molta attenzione illustri pensatori che, in tema di vaccinazioni e di contromisure alla pandemia, hanno espresso tesi controverse su materie non loro. Non è che anche gli accademici ricorrono un po’ troppo spesso alla fallacia dell’autorità?

Gli accademici italiani cascano in numerose fallacie, se è per questo, ma quella dell’autorità li colpisce con regolarità. Noi professori esageriamo sempre le nostre capacità e quello che crediamo di sapere o poter fare. Stiamo parlando di un fenomeno italiano, perché nel resto del mondo i casi di accademici contro vaccinazioni e misure anti-pandemiche sono stati irrilevanti, e non hanno trovato lo spazio mediatico-circense concesso in Italia. La libertà di pensiero non va messa in discussione fino a che non si trasforma in attivismo organizzato che causa danni ad altre persone, ma trovo grave che delle commissioni parlamentari abbiano audito per ben due volte qualcuno di costoro facendo da cassa di risonanza. Né mi è parsa una genialata il manifesto di un centinaio di filosofi contro uno di costoro dicendo che non rappresenta la filosofia italiana, la quale invece si fida della scienza. Il tizio ha tutto il diritto pensare e dire quello che vuole come cittadino, mentre ai senatori paghiamo noi lo stipendio e dovrebbero evitare di rilanciare fesserie: il problema non è tanto lui, che sta affermando cose logicamente conseguenti con quello che aveva sempre scritto, ma il circo mediatico che lo usa per alimentare la polarizzazione. Però voi capite che quando c’è di mezzo il narcisismo e il gusto o l’abilità della recitazione in televisione di alcuni, non c’entra più niente l’accademia.

L’affare Sokal, replicato poi da quello dei Grievance Studies, ha evidenziato quanto sia relativamente semplice far pubblicare su riviste accademiche (anche prestigiose) ricerche assolutamente improbabili, ma scritte in un linguaggio “alla moda”. È veramente così facile come sembra? E non rischia quindi di dilagare, visto il parallelo fenomeno dell’editoria scientifica a pagamento e di bassa qualità?

Non viviamo in un mondo perfetto, e si tratta di un fenomeno inevitabile, se vogliamo, dato che le comunità accademiche sono proliferate demograficamente e che la valutazione si è concentrata sempre più su indicatori quantitativi. La truffa nelle pubblicazioni accademiche è ormai un fenomeno organizzato, con un cospicuo giro economico: spendendo poche centinaia di dollari si possono comprare articoli con la garanzia che saranno pubblicati su qualche rivista. Però l’affare Sokal/Greviance Studies era un po’ diverso, perché aveva lo scopo di mostrare che i testi che si pubblicavano su riviste accademiche di orientamento postmoderno sono “fuffa”, nel senso che si potevano scrivere articoli privi di senso e scimmiottando un certo linguaggio settario, ottenendone la pubblicazione. D’altro canto, sono stati scritti articoli senza senso o fatti scrivere da un computer ottenendone la pubblicazione su riviste predatorie, cioè riviste che si fanno pagare per la pubblicazione e non guardano minimamente al contenuto. Sono due fenomeni diversi, dove il primo è la conseguenza di una deriva culturale mentre il secondo è la conseguenza inevitabile della logica del publish or perish.

Quanto è diffuso, negli atenei italiani, il pensiero postmodernista?

Questo non lo saprei dire, perché postmodernismo è un termine ombrello, ma anche anguilla. Fondamentalmente si basa sull’idea che non esiste alcuna verità operativamente e stabilmente definibile e definitiva. Ma questa tesi si può derivare anche da alcune posizioni razionaliste. I due aspetti che lo connotano maggiormente sono l’idea, direttamente ripresa dal marxismo, che diverse interpretazioni della realtà, epistemologicamente equivalenti, sono solo forme di lotta per il potere, e l’impianto antiscientifico e anti-illuminista. Il postmodernismo o decostruzionismo sostiene quindi che tutte le idee, comprese le teorie scientifiche, sono congetturali e impossibili da giustificare, sono arbitrarie o niente altro che “narrazioni”. Combinando il relativismo culturale radicale con diverse forme di antirealismo, conclude che la verità oggettiva e la falsità, così come la realtà e la conoscenza della stessa, sono mere forme convenzionali di discorso, che rappresentano l’approvazione di un’intuizione da parte di un gruppo di persone, sulla base di status o consenso, o da qualche moda o autorità arbitraria. Scienza e Illuminismo sono una di queste mode, e la conoscenza oggettiva rivendicata dalla scienza sarebbe una forma di arrogante presunzione culturale. Voi capite che si tratta di un “vasto programma”. Che io sappia è soprattutto nei corsi di laurea in sociologia e in quelli di lettere e storia che circolano le idee postmoderniste.

Si può ancora parlare, nel nostro paese, di separazione tra studi umanistici e studi scientifici? E quanto spazio viene riempito dalla pseudoscienza?

Se ne può parlare eccome. Le aree tematiche e disciplinari in Italia hanno resistito al tentativo operato a livello di Erc (Consiglio europeo della ricerca) di rimescolare le carte. Durante i quattro anni nei quali ho diretto il Dipartimento di scienze umane e sociali, patrimonio culturale ho cercato di contaminare il più possibile quel dipartimento con gli altri di scienze dure, e viceversa. Posso dire di aver avuto un certo successo creando da zero un Istituto di scienze del patrimonio culturale, fortemente multi e interdisciplinare, e nel valorizzare il ruolo delle scienze cognitive, ma per il resto hanno prevalso le resistenze conservatrici. Per cercare di uscire dal deserto creativo che oggi colpisce abbastanza sia gli studi umanistici sia quelli scientifici si dovrebbe provare a contaminare direttamente i corsi di laurea usando come terreno di semina le scienze neurocognitive, che sono già normalmente dedicate anche a processi conoscitivi e valutativi nei diversi ambiti di studio. È vero che le pseudoscienze tendono a essere credute più da umanisti che da scienziati, e a provare questo sono sufficienti le profilazioni della formazione dei consumatori di medicine alternative (soprattutto omeopatia) e oroscopi. Tuttavia, penso che il problema non sia la formazione umanistica o scientifica, ma la preparazione scolastica, che non insegna ai ragazzi quando sono adolescenti a ragionare correttamente usando le prove. Chi successivamente intraprende una carriera di studi umanistici praticamente non avrà più occasione di imparare come davvero funziona il pensiero critico.

L’influenza del Vaticano si fa ancora sentire?

Come no. Il Vaticano è dietro a diverse operazioni culturali e di politica accademica che introducono insegnamenti religiosi nelle università grazie alla sudditanza dei rettori a fronte dei diktat delle curie, e quindi docenti con approcci confessionali entrano nelle università. L’astuzia e la smania di potere di qualche docente con l’indole del prete è unica, visto che travestono le loro attività di propaganda e campagna di occupazione culturale con la locuzione “scienze religiose”. Un bel camuffamento.

Il non-accademico si trova spesso in difficoltà nel comprendere il contenuto di testi specialistici. Qual è il confine tra il tecnicismo indispensabile e il gergo per iniziati? E come individuarlo?

I testi specialistici non possono essere per tutti, perché nel tempo c’è stata una selezione inevitabile all’interno delle diverse discipline verso il tecnicismo linguistico. Quello che si può dire in modo generalista e che sia anche plausibile empiricamente è abbastanza limitato, e per fare carriera si devono pubblicare idee o scoperte nuove che inevitabilmente diventano sempre più specifiche. Oggi sarebbe forse utile un lavoro pubblicistico che cerchi di fare da raccordo o sintesi tra contenuti diversi, piuttosto che magari divulgare conoscenze molto specialistiche in modi piuttosto piatti e a volte fuorvianti.

Cominciano a spuntare anche da noi le cattedre finanziate da paesi arabi. Non si corre il rischio di limitare l’indipendenza e/o di “sdoganare” ideologie estremiste, come accaduto a Oxford con il discusso teologo Tariq Ramadan?

Oltre che un teologo estremista, Ramadan pare fosse uno stupratore seriale. Un caso clinico che ha incantato l’occidente con un islamismo che lui definiva riformista, ma che di fatto pretendeva di far accettare le tribali pratiche sociali dell’islam, sostenendo che non c’entrano nulla con gli atti terroristici. E tutti a credergli fino a quando non ha dimostrato coi fatti il suo disprezzo, anche in quanto mussulmano, per le donne. Il fatto è che le università occidentali, a parte quelle che hanno fatto investimenti strategici e stretto collaborazioni di successo con imprese private, sono affamate di denaro. Quindi sensibili alle offerte dei paesi arabi di pagare cattedre per insegnare cose che hanno a che fare con l’islamismo. Ce ne sono un po’ ovunque nel mondo e anche una in Sapienza a Roma, che è stata molto discussa. L’intento di questi insegnamenti sarebbe di far conosce meglio i valori dell’islam e di promuovere il dialogo interreligioso al fine di realizzano scenari di coesistenza pacifica tra religioni. Mi sono sempre chiesto come mai coloro che parlano di “coesistenza pacifica” non si rendono conto che stanno ammettendo la natura intrinsecamente violenta delle religioni, alcune delle quali, come l’islam, esistono storicamente anche in funzione di un’organizzazione sociale con scopi bellici e di conquista. Insomma, noi non parliamo di “coesistenza pacifica” fra la scienza e l’arte o fra diverse discipline scientifiche e pratiche artistico-letterarie. Insegnare la coesistenza pacifica tra religioni è una presa in giro. Quello che si dovrebbe insegnare ai giovani è come si possono disinnescare i meccanismi psicologici attraverso i quali le credenze religiose, in particolari contesti socio-economici, deragliano verso il settarismo, il fanatismo e il terrorismo.

Intervista a cura della redazione UAAR

 

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